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Caro diaro...
Che ognuno viva il Natale come preferisce è evidente, oltre che legittimo: non tutti sono cattolici, non tutti religiosi o nemmeno romantici. Però, tra tante ricorrenze che, tra sacro e profano, occasionalmente coinvolgono la collettività, il Natale è l’unica ad avere comunque un sentore privato, intimo. E lo mantiene anche nell’era moderna, a dispetto degli approcci più festosi, materialistici o massificanti che si sono affiancati al suo aspetto tradizionale senza però riuscire a sostituirlo. Il Natale profuma ancora di buono, di caldo, di morbido. Bucce di mandarino bruciate sulla fiamma, noce moscata per il brodo, resina di conifere, muschio e cera di candele... con un sottofondo di vaniglia, di incenso, di cannella. Profuma un po’ anche di polvere, che arriva dalla soffitta dove riponiamo gli addobbi, dai cassetti in cui è riposta la tovaglia buona; dalle nostre radici. Perché il Natale profuma soprattutto di ricordi. E in tal senso è inesorabile: anche chi lo considera “un giorno come un altro”, anche l’adulto più distratto, agnostico o disincantato è stato bambino. E ogni nuovo Natale ha il potere di evocare i Natali precedenti, fino a quelli più antichi: certi gesti, certi rituali, certi oggetti o ambienti sono sempre gli stessi anno dopo anno, anzi appartengono a quel solo giorno dell’anno... come singole perle, diverse ma simili, che si legano in una collana di memorie e di affetti lunga come la vita stessa. Nessuno di noi ricorda il suo primo Natale, e non perché eravamo troppo piccoli ma perché il Natale originale è l’inizio di tutto: la vita, appunto. Nata da una scintilla, da un soffio, da una speranza. Di per sé assoluta eppure talmente umile da sapersi relativizzare, adattare ai tempi o ai modi del divenire, bussando ogni anno alla porta del nostro cuore per chiederci il permesso di entrare; e così rinnovarsi e permettere a noi di rinascere. Il Natale, in fondo, è un ritorno a casa.
Buon Natale.
a cura di Sandra Zagatti
Sono nata in questo mese, eppure c’è in esso qualcosa che puntualmente mi intristisce. Un’energia cadente, un senso di fine che non viene compensato né sublimato dalla dolcezza del clima, della luce, dei colori – e semmai ne viene amplificato. Nessun’altra stagione, come l’estate, è tanto spavalda nella sua gioiosa esplosione quanto disarmata e malinconica nella sua fase conclusiva. Anche le estati più calde sembrano sempre troppo brevi quando stanno per finire, e in questa nostalgica fragilità c’è un’eco vibrante con la fine della vita: quella anzianità non ancora invalidante ma già consapevole, non ancora “saggia” e tanto meno rassegnata, ma insistentemente legata a un passato che scivola dalle mani, che pure tentano di trattenerlo e perpetuarlo. Avrei ancora tanto da fare, da dire, da essere! Ma il tempo passa, e in settembre sembra proprio accelerare nel suo inesorabile passaggio di consegne tra luce e buio, caldo e freddo, fuori e dentro: l’energia si ritira, e che ci piaccia o meno ha validi motivi per farlo. Proprio come le rughe sul volto sono testimonianze e non solo mortificazioni; gli acciacchi al corpo un invito a farsi anima, e quindi ad arricchirsi di altro e non solo a privarsi del meglio… Sono nata in settembre e mi sono sempre sentita vecchia. Tranne quando mi risveglio, a primavera; anzi a fine inverno: quello sì che è un periodo terminale ma fremente di energia, di vita, di gemme rese potenti da una rinnovata ed eterna adolescenza! Sentirmi vecchia da giovane mi ha fornito però un paradossale privilegio: quello di abituarmi ad anticipare i tempi, vivendo quindi in prospettiva giovane nonostante il passare del tempo e forse persino grazie ad esso. E se a fine inverno avverto la rinascita, e poco mi importa che ci sia la neve, che le giornate siano ancora corte e le notti fredde… a fine estate sento già il brivido del ramo spoglio, che nella sua solitudine sopporta coraggiosamente il peso di un addio; il timore della terra che vede il sole abbassarsi sull’orizzonte, e che pure si concentra su sé stessa, rannicchiandosi per meglio abbracciare il seme che nasconde e protegge. Rispetto questo tempo, lo amo come ogni tempo anche se non mi diverte, non mi esalta e non si fa complice della mia umana presunzione di immortalità. Settembre è un mese… onesto, e in tal senso mi piace pensare che corrisponda comunque alla mia nascita, anzi al senso della mia vita. Vita che comprende la morte fin dal primo respiro, e che l’attende pur senza desiderarla, la costruisce senza temerla. Non sarebbe vita, se non si esprimesse nel divenire; ma nemmeno se, del divenire, apprezzasse solo il passato e non anche – soprattutto – il futuro. Qualunque e comunque esso sia.
E’ tornata l’estate ed è un’estate nuova, anche se tutto – nella luce, negli odori, nel clima – mi ricorda il passato. Molte cose, che erano parti della mia vita anche solo lo scorso anno, non ci sono più; ma forse è proprio questa memoria del “non più” a farmi percepire la presenza del nuovo. Più ricordo e più supero, più trattengo e più mi libero, più mi alleggerisco e più mi fortifico. Ho scelto di non contrastare la malinconia, ed è diventata un’amica discreta, assai meno invadente e protagonista. Con la solitudine sono sempre andata d’accordo ma ho imparato a rifiutarne la sublimazione, apprezzandone il valore ma senza che ciò significhi sempre accettarne anche il peso. La differenza più importante, tra ieri e oggi, non è quella esterna o interiormente evidente, non consiste in quel “non più” che anzi continua a vivere con me anche in quanto tale; forse non è nemmeno nella percezione di un domani che vuole esistere “ancora”. E’ uno strano – meno precario – equilibrismo tra Saturno e Urano, in cui la totale accettazione passiva diventa magicamente atto consapevole e volontario. Sofferenza creativa o entusiasmo funzionale: comunque un esserci dentro, un “interesse” responsabile e contemporaneamente abbandonico, quasi fatalista. Un’avventura incuriosita ma ricettiva e disponibile, in cui il lieto fine è più un sospetto che una sfida. C’era una volta… e non c’è più; o forse c’è ancora. Simile e diverso. Un eterno presente che diviene, e si stupisce da solo.
Ho già avuto modo di parlare del rammarico – misto a un sottile fastidio – con cui osservo la trasformazione di ricorrenze sacre o religiose in feste profane e più o meno grossolane. La commemorazione dei Santi e dei defunti è ormai quasi soppiantata da Halloween, ma a sua volta la simbologia originale di Halloween è finita nel dimenticatoio, sostituita da una sorta di “carnevale dark-horror”, in cui nessuno sembra manco interrogarsi sul significato spirituale di una fiamma che illumina l’interno di una zucca scolpita in sembianze antropomorfe o sul rito esorcizzante e scaramantico con cui scegliere tra “dolcetto o scherzetto”… eppure molti, bimbi e persino adulti, indossano mantelli da pipistrello e cappelli stregoneschi, evidentemente divertendosi un sacco.Esigenze dell’era consumistica, già. Ma c’è almeno un lato positivo nel risparmio commerciale, laddove certi gadget, e in particolare quelle orribili streghe che troviamo ovunque in occasione di Halloween… possono venir riciclate paro-paro come Befane! O forse viceversa, chi può dirlo. Sta di fatto che l’immagine della Befana, quando ero bambina (cioè qualche decennio fa, ma non nel Neolitico), era quella di una vecchina con il fazzoletto in testa, le “scarpe tutte rotte” e il sacco sulla schiena ingobbita. Non era certo uno schianto di avvenenza, come alcune sue moderne e improbabili versioni sexy, anzi aveva aspetti trasandati e dimessi, ma in quanto a forza fisica e a rigore morale non era seconda a nessuno, visto che passava dal camino come Babbo Natale ma a differenza di lui gestiva con saggia competenza gli equilibri tra bene e male, tra premi e punizioni, scegliendo scrupolosamente le calze da riempire di dolci o di carbone! Era un femminile arcaico, rassicurante come una nonna o una tata ma educativa e ammonitrice come una maestra dei tempi che furono. Oggi l’immagine della Befana, a ben pensarci, è più simile alla strega di Biancaneve: nera, brutta e cattiva. Che fine ha fatto quella vecchina malconcia ma non certo terrifica, alla quale lasciavo una fetta di panettone e un bicchiere di vino nella notte tra il 5 e il 6 gennaio? Lo fanno ancora i bambini di oggi? Appendono ancora la calza al camino, o si limitano ad incollare sulla cappa elettrica della cucina in acciaio satinato un biglietto con il numero di cellulare da ricaricare? E cosa lasciano per rifocillare la Befana moderna: i bocconcini di Capitan Findus, una Fiesta tutta sostanza, un buono omaggio per l’happy-hour? C’è ancora qualcuno che ricorda il significato della scopa della Befana, e della Befana stessa? Un tempo, a metà del ciclo lunare dopo il solstizio d’inverno, si celebrava la morte e rinascita della natura. Proprio Madre Natura in persona, dopo aver profuso tante energie durante l’anno, si presentava come una vecchia stanca ma benevola. Ormai secca e sterile, era pronta ad essere bruciata (nel camino?) per trasformarsi in ceneri con cui fertilizzare la terra in vista della primavera: ceneri del passato “da spazzare via” con la sua scopa, ripulendo anche il cielo per prepararlo alla Luna Nuova, alla Natura giovane. Prima di perire, la vecchina distribuiva doni: i frutti dell’anno passato… E poco importa se fossero frutti gratificanti e zuccherini oppure residui indigesti in forma di carbone: in ogni caso si trattava di un bilancio onesto, comunque utile, per generare nuovi semi. Che fine ha fatto questo opportuno momento di rigenerazione coscienziale? E a proposito dell’avvento del Nuovo Ciclo, vorrei dire di più: che fine hanno fatto i Re Magi? C’è ancora qualcuno che ricorda l’Epifania, la simbolica e sacra “manifestazione” del Divino che oggi, non a caso, noi astrologi celebriamo come “festa di categoria”? Nel diffuso e non di rado malinteso impegno a distanziarci dalle istituzioni confessionali e in particolare dalla Chiesa Cattolica, dimentichiamo anche la sacralità e la consolante, incoraggiante bellezza di miti religiosi culturalmente congrui ed esotericamente luminosi. Non stiamo soltanto perdendo le nostre Tradizioni: ne stiamo perdendo il senso, la memoria, la sollecitazione evolutiva. Nemmeno Babbo Natale passa più per il camino: personalmente trovo di un kitsch orribile la versione “arrampicatrice” che si è diffusa negli ultimi anni sui balconi delle case, ma a prescindere dal mio gusto estetico o da chi si affretta a motivare una tale trasformazione con l’oggettiva e progressiva perdita di focolari domestici… io penso alla differenza simbolica tra un Babbo Natale “invisibile” mentre si cala nel camino ed uno in bella mostra nelle facciate condominiali, e soprattutto alla differenza tra il suo movimento “dall’alto verso il basso”, come discesa numinosa e interiorizzata, e il movimento attuale di faticosa, impacciata nonché esposta risalita. In questa fatica, indubbiamente maggiore, Babbo Natale ci guadagna forse un vestito più pulito… ma noi? Ho controllato il web, in tutta la giornata. Scarse e timide le tracce dei Re Magi, inesistenti gli inviti ad un bilancio interiore. Nessuna immagine di scope all’opera sulla terra da ripulire, o di calze appese ai camini, semmai tante di calze autoreggenti sulle gambe di streghette moderne e – “wow!” – sedute in pose vezzose o persino imbarazzanti su scope orizzontali; alternate a streghe senza poteri magici ma con palesi poteri di inorridire – “bleah!” – e il tutto condito da ironici auguri, da parte di maschietti, alle donne che fingevano disappunto. Intanto, l’Epifania ha portato via le feste mentre poco o nulla sembra essere stato celebrato, onorato o rigenerato dalla nostra società, reale o virtuale. E io – lo ammetto con tristezza e un pizzico di impopolare fierezza – mi sento davvero una Befana. Vecchia, stanca, piegata: con le scarpe rotte e un cuore nostalgico. Mo’ vado a farmi un bicchiere di vino per consolarmi; ma ci aggiungo anche un dolcetto, perbacco.
In queste pagine ho spesso parlato del mio amore per i cimiteri, né lo ritengo un sentimento morboso o meno nobile di altri; credo anzi che sia un’espressione legittima e rispettosa del mio stellium in ottava casa, con il segno della Vergine intercettato. Mi piace il verde dei prati e dei cipressi che circonda le tombe, mi commuove l’ordine e la pulizia con cui sono disposte ed esposte, la sobrietà di cui sono fatte, anche nelle versioni più ricche o celebrative: pietra, legno, terra, un’immagine e pochi dati, che dicono tanto; forse tutto. In quell’ambiente sento pace, dolcezza, non (più) sofferenza. Guardo quelle foto, leggo quei nomi, le date, gli epitaffi spesso retorici ma comunque solenni, e penso a quanta vita – paradossalmente – è racchiusa in un luogo che viene considerato di morte. Quanta storia, quante storie, e quanta autentica giustizia nella vicinanza tra ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne, tra persone di tutti i ranghi e tutte le età che adesso sono più vicine, quasi somiglianti: uniformate ma non per questo private di dignità, semmai esaltate nella loro essenza. Siamo anime in cammino dentro un corpo stretto e scomodo, una materia fallace, eppure portatrici della responsabilità e dell’investitura di una fiammella: quanti dolori, quanti errori e difetti sono ormai risolti dal perdono, superati dalla compassione, sanati!Naturalmente le mie visite al cimitero sono occasionali, anche se non limitate alle ricorrenze, ma in questi giorni ci sono stata più a lungo: tre mattine, per visitare i tre cimiteri in cui sono sepolti i miei defunti, e in particolare per vigilare sul decoro della tomba di mio padre, ancora provvisoria e decisamente fangosetta, con tutte queste piogge! E intanto ho passeggiato, pensato, e anche… agito. Ho comprato un mazzo di crisantemi bianchi, grandi, e ne ho deposto uno sulle vecchie tombe ormai abbandonate, quelle che mi sembravano davvero troppo sole e malinconiche. Ho cambiato i fiori necessariamente finti (belli quando li acquisti ma tristissimi quando accumulano polvere) negli ossarini dei miei nonni, ringraziando Dio per aver permesso al destino di riunirli tutti e quattro nello stesso luogo, anzi proprio affiancati e sovrapposti a due a due, dopo le rispettive riesumazioni e nonostante siano morti a distanza di anni e decenni. Poi, dopo aver fatto visita alla tomba della mia amata dada, amplificando come sempre il senso di gratitudine per questa donna umile e buona, che ha dedicato la vita alla mia famiglia senza avere nemmeno una goccia di sangue in comune… ho incrociato con lo sguardo la foto di una giovane donna con un neonato in braccio. La data risaliva alla prima guerra mondiale e tra le due morti (ventotto anni lei, quattro mesi lui) c’erano pochi giorni di differenza: prima il bimbo, presumibilmente di malattia; poi la mamma, forse della stessa malattia o di dolore... o magari entrambi vittime di una granata. Mi è venuto da piangere come se fossero miei parenti! E lo so che i cimiteri sono pieni di lapidi strazianti, che l’esistenza stessa è piena di malattie, fame, guerre e morti ingiuste… ma sono tornata dal fiorista per lasciare davanti a quella foto almeno una piantina di ciclamini bianchi, assieme alla mia preghiera. Caro Diario, non credere comunque che le mie trasferte cimiteriali siano state caratterizzate solo da dolcezza, struggimento e sentimenti elevati! Mentre camminavo sul prato incolto e allagato che porta alla tomba del mio babbo, ho incrociato tre persone: lui di mezza età, grasso e tarchiato, lei – probabilmente la figlia – in versione simile seppur sulla trentina; e un altro ragazzo, forse il fratello o il compagno di lei, in disparte e imbarazzato. I primi due, infatti, stavano litigando rumorosamente, e man mano che mi avvicinavo li sentivo urlare sempre di più. A un certo punto lei ha detto a lui che era uno str****, lui ha detto a lei che era una put****, mandandola senza mezzi termini a fan****. Intorno a me, altre persone li guardavano con disagio, giustamente scandalizzati, ma io, in quel momento, se avessi avuto in mano la bilancia e la spada dell’Arcangelo Michele, avrei potuto usarle entrambe! E non sembri un paragone sacrilego: il mio sguardo era altrettanto infuocato. Ho usato comunque una voce glaciale mentre li richiamavo al rispetto per un luogo sacro, dicendo loro di vergognarsi. L’effetto è stato immediato: silenzio di tomba. E in tutto ciò, ieri mattina al supermercato ho dovuto assistere alla distribuzione di cappellini stregoneschi, ieri sera mentre ancora lavoravo sono stata più volte disturbata dal campanello e relativo “dolcetto o scherzetto”, mentre ovunque (per la strada come in tv) andava in scena questa versione fanta-horror del carnevale. Sono certa che siano ancora in molti a ricordare la celebrazione dei Santi e la commemorazione dei defunti, ma sono altrettanto certa che siano pochi a conoscere i riti originali, e altrettanto sacri, associati a Halloween, e che giustamente potrebbero essere raccontati e insegnati anche ai bambini. Ma in fondo, persino il Natale sembra ormai soltanto un’occasione attesa dai commercianti per risollevarsi un po’ dalla crisi; e da tutti per mangiare di più, spendere di più, divertirsi (o annoiarsi) di più. I cimiteri non sono affatto tristi. Triste è dover constatare che per noi fieri rappresentanti della “civiltà moderna”, tutto sembra assumere importanza solo se entra nel circuito consumistico; mentre nemmeno ci rendiamo conto di essere i primi a consumarci nella nostra stessa ignoranza, complice dell’oblio di valori.