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Caro diaro...
Mio padre ha lasciato il suo corpo stanco e sofferente alle 22.30 di martedì 29 giugno, proprio mentre la Luna si congiungeva al suo Nodo Sud in quarta casa. Dopo tanto penare, dopo tante lacrime e fatica, e il trambusto inevitabile di questi giorni, adesso non sento né il desiderio né il bisogno – e non lo ritengo nemmeno opportuno – di forzare con ulteriori parole la riflessione sull’intensa esperienza con cui il destino mi ha portato ad accompagnarlo, per mano, fino al suo ultimo respiro. Quando il Sacro si palesa, è giusto onorarlo e rispettarlo, con il silenzio, con la preghiera, con l’umiltà che sempre dovrebbe accompagnare il mistero che si fa confronto tra relativo e assoluto. Dunque preferisco ricordare pubblicamente il mio babbo non con le mie ma con le sue parole, le stesse che ho letto in chiesa al suo funerale. Brani che lui scrisse qualche anno fa e che io ho semplicemente scelto e “assemblato” in un ordine che mi sembrava… non so… forse più giusto o significativo, proprio adesso, come una sorta di sintesi già nascosta tra le righe fin da quando elaborò queste riflessioni, pur all’interno di ragionamenti diversi:
Ho un’immagine davanti alla mente, e nel cuore lo stupore di un ricordo recuperato: un cimitero, una tomba in terra ed io che dormo sopra questa tomba, appoggiato con la schiena alla lapide di marmo. Questo è avvenuto, esattamente così, verso la fine della guerra, quando, per sfuggire a un rastrellamento dei soldati tedeschi, avevo trovato una via di fuga dentro un cimitero di campagna. In questo cimitero, tra le colline dell’appennino toscano, vicino al fronte, ero rimasto tutta la notte nascosto sopra una tomba, circondato e protetto da altre tombe: su quella tomba ricordo di essermi poi addormentato, forse perché, a vent’anni, quando si ha sonno non si riesce proprio a star svegli… Niente di particolarmente strano in questo ricordo, se non il racconto di un momento pericoloso e drammatico, superato comunque con una buona dose di fortuna e di incoscienza. Strani, semmai, sono il suo apparire improvviso e la sua analogia, che legittima il turbamento affiorato, con le bibliche parole: “Io metto davanti a te la morte e la vita, a te scegliere la vita”.
Penso che ci voglia coraggio, un coraggio particolare, di certo un coraggio metafisico, per vincere la paura del nulla e della morte. Per vincere anche la paura della vita, che è unità essenziale di vita e morte. Io non so quale sia la via che mi possa portare ad avere quel coraggio, e qui si apre forse un problema morale come problema del modo concreto in cui si debba vivere. D’altra parte, se devo dire che cosa sia il male per l’uomo, non vedo altro di più universale del lasciare la propria coscienza chiusa nei limiti di un destino finito. Il bene, allora, è certamente il dovere di impegnare la vita nella sfida di dilatare all’infinito il contenuto della coscienza. Ed è forse solo un pensiero della mia fantasia quello che si lancia impudico a suggerire: quando c’è lo sguardo dell’uomo dalla terra al cielo, c’è sempre lo sguardo di Dio verso l’uomo. Sguardi che sembrano cercarsi su quello stesso percorso che il cielo separa come tratto intermedio non ancora abbattuto di una galleria eternamente scavata dalle due parti e che rimanda sempre il momento di un incontro, comunque ineluttabile. Talvolta può anche sembrare vicinissimo, quando, al di là della separazione, si intuiscono presenze dai cenni di luminosità che traspaiono. Piccole stelle che nascono nel cielo dello spirito, ed anche felici atmosfere: non certo eventi straordinari, ma soltanto il clima ideale per l’anima che finalmente si ritrova a casa propria.
Guardandomi dentro ma parlando in generale, credo proprio che la storia alle spalle di ognuno non contenga in sé la propria intelligibilità se non nel momento in cui si realizzano certe condizioni: quelle che rendono possibile il trasferimento ad una storia più importante. Come in questi versi del poeta, di cui non ricordo il nome ma le cui parole mi sono sempre rimaste nella memoria: “Forse l’estrema gioia, inutilmente inseguita per tutta la vita, è quella che ci folgora al momento di morire, nel grande mutamento.”… E così è andata: sin verso il mattino, quando anche l’ultimo barlume della mia coscienza ha finito di tramontare, quasi ritualmente, nell’alba rosata del nuovo giorno.Le campane, ormai, sono agli ultimi rintocchi e non seducono più. Il concerto è finito, ma finché è durato è stato bello per me sentire di condividere con gli altri almeno lo stesso bisogno di sopperire a quella mancanza, sempre più avvertita in tante cose, dell’Idea segreta che informa la loro realtà e che Dio nasconde e protegge, chissà perché, con tanto zelo. Mi decido così a ritornare al mio spazio di dentro, chiudo la finestra, e forse... E forse niente. Niente al di là di un pizzico di strana nostalgia, sensazione indefinita, quasi malinconica, per qualcosa che non è: non perché non è più, ma perché non è ancora. Lo sarà nella mia storia? Io non lo so, ma posso certo sperarlo: un pezzetto alla volta o tutto quanto in una volta sola, dipenderà comunque dalla grazia di Dio.
(Giorgio Zagatti)
Ciao babbo, e grazie.
a cura di Sandra Zagatti
Ricorderò a lungo, lo so, questa primavera-estate. Astrologicamente parlando, basterebbe citare Saturno, Nettuno e Plutone per descriverne l’atmosfera. Psicologicamente ed affettivamente parlando, è più lungo e complesso argomentare sul senso di perdita, di distacco, di smarrimento, di… fine che questi transiti comunque rappresentano, perché gli argomenti e i livelli sono diversi e le mie risposte tentano di adeguarsi, differenziando ciò che è natura da ciò che è vita: il tempo ciclico da quello lineare ed entrambi dal tempo degli eventi. E quindi anche parlare di tempo è difficile. E’ difficile capire da quanto tempo è iniziato questo processo, perché tornando indietro ne ritrovo tracce simili in tanti, troppi anni. Vedo anche i momenti di apparente o momentanea sosta, i tentativi di scorciatoia, i percorsi di aggiramento e tutte le occasionali fasi che, in quel momento, sembravano svolte. Ma sono tratti brevi, dopo di che le impronte tornano tutte, sempre, verso la stessa direzione. Pur facendosi progressivamente più profonde; io, forse, più pesante. Non so cosa mi aspetta. So ciò che avevo e non ho più, ho perso o sto perdendo, ho scelto o accettato di abbandonare; so ciò che ero e che oggi non sono, non voglio o non posso più essere, ciò che in me è cambiato irreversibilmente mentre il passato si faceva presente, ed anche ciò che il presente ha recuperato dal passato. Anzi, se c’è una caratteristica dominante in questi ultimi mesi della mia vita, è proprio il ritrovamento di un passato remoto che rende quello prossimo paradossalmente più lontano. Perché forse è proprio là, in quel passato remoto dell’infanzia e dell’adolescenza che ha avuto inizio questo viaggio adulto. Sto invecchiando e ringiovanendo allo stesso tempo (di nuovo Saturno e Urano…), sto accumulando esperienza e sofferenza, aggiungendo spessore e complessità alla mia vita, mentre di fatto mi sto spogliando e alleggerendo; semplificando. E dentro di me, nonostante tutto, qualcosa insiste a dirmi che la chiave per accedere al mio futuro sta appunto nel mio passato originale, non in questo lungo – e sembra eterno – presente. Anche la malattia di mio padre sembra ormai essere allo scontro finale con la sua taurina resistenza. Ieri ho dormito a casa dei miei, finora non era stato necessario ma comincia ad esserlo. “Dormito” si fa per dire, diciamo che sono stata sveglia nella mia vecchia stanza, sul letto che ha accolto il mio sonno e i miei sogni dai sei ai ventisei anni di età. L’arredo pressoché identico, la stessa vista sui tetti del centro storico dalla finestra, lo stesso rumore dell’ascensore condominiale a ridosso della parete e gli stessi rintocchi della torre dell’orologio, in piazza. I primi che ho sentito erano quelli delle dieci di sera, e sono stati come un segnale, una sorta di chiamata… Mio padre stava già dormendo; mia madre stava ancora vagando per la casa, per controllare che io non avessi caldo, che lui non avesse freddo e che il destino non avesse cattive intenzioni, ma poi anche lei ha ceduto, grata alla mia presenza, e si è addormentata. Ed io sono rimasta lì, tra tempi vecchi e nuovi, tra età giovani e antiche. Guardavo la mia scrivania, rivedendomi mentre scrivevo i tanti ed altri diari che ho sempre scritto. Quasi sempre mentre i miei familiari dormivano: nel primo pomeriggio, prima dei compiti, o la sera prima di dormire a mia volta. E ho ricordato che ogni tanto scrivevo qualcosa nelle ultime pagine ancora bianche, o addirittura sigillavo biglietti in buste destinate a me stessa ma da leggere rigorosamente anni dopo. E in quei messaggi mi rivolgevo alla Sandra ignota che sarei stata, immaginandola più saggia e non solo più adulta, e dandole del tu come fosse un’amica già presente (“Cara Sandra…”), come per avvicinare quella distanza tra esistenze diverse in una coscienza unitaria; diversi Io in un unico Sé.L’ho ricordato mentre mi accorgevo, in quella notte fuori dal tempo e dentro ogni tempo, che ero sola ma non da sola: che era proprio la Sandra ragazzina a tenermi compagnia, ancora così presente con le sue tracce nell’energia di quella stanza. E che ero io, in quel momento, a chiedere e a ricevere il suo conforto, il suo sostegno, il suo insegnamento. Cara Sandra, sì.
Se io fossi una mia amica… cioè, se fossi davvero una persona diversa da me, esterna, che mi conosce e mi vuole bene… mi sgriderei, pur confortandomi e senza voler con questo giudicarmi. Mi direi che devo smetterla di trattenere dentro di me i sentimenti che reputo negativi, come la rabbia o il dolore, perché se sono negativi è proprio in quanto trattenuti. Mi direi che il fatto di ritenere ingiusto un comportamento subito, o di soffrire per una ferita ricevuta, o di essere spossata da una situazione imposta e non scelta, comunque non modificabile a piacimento, mi autorizza a protestare senza per questo smettere di voler bene alla persona responsabile, e senza necessariamente farlo con lei. Che almeno con me stessa posso essere sincera, perché il pur doveroso sforzo di mettermi nei panni di quella persona, di capirla e perdonarla, non deve farmi dimenticare di essere innanzitutto – anzi soltanto – nei miei, di panni. E se mi stanno stretti, ho anche il diritto di cambiarli o almeno di lasciarmene provare il desiderio, o la speranza. Mi direi che la paura che sento è legittima, che la stanchezza che provo è comprensibile, che la tristezza che pesa sul mio cuore non è nevrotica, e che sarebbe ora di smetterla con questo bisogno di dimostrami buona e brava, perché in merito a ciò ho già dato esaurienti testimonianze, e perché la bontà e la bravura non richiedono la perfezione o l’assoluta continuità per essere autentiche. Mi direi che vivere sentimenti contraddittori ed emozioni altalenanti è naturale in certe fasi della vita, perché se Saturno frena e Urano spinge non posso sottovalutare il fatto di esserci io, nel bel mezzo di quella opposizione, e se fosse facile integrarla in un saggio e distaccato equilibrio non sarebbe un’opposizione; o io non sarei umana. E aggiungerei che essere umana è assai meglio di essere saggia e distaccata. Se fossi una mia amica, andrei poi dagli altri amici, parenti, colleghi, da tutti quelli che mi conoscono e mi frequentano, e sgriderei anche loro. Ad ognuno e a seconda del rapporto che hanno con me, direi che se vuole aiutarmi deve rispettare il mio silenzio come le mie parole, anche se reputa il primo inopportuno e le seconde sbagliate. Gli direi di guardarsi dentro, e chiedersi se il dispiacere che prova per questo mio momento di allontanamento e introversione non è forse soltanto un suo dispiacere, dovuto alla mancanza delle mie più comode doti di presenza, efficienza, accoglimento a cui era affezionato o semplicemente abituato. E gli direi di smettere di dirmi che sono forte, anche se lo fa per sostenermi e incoraggiarmi, perché così facendo mi carica di aspettative o mi investe di proiezioni che mi costringono a perpetuare il mio bisogno – questo sì nevrotico – di essere amata, stimata, unica e insostituibile; mentre insistere a mostrarmi forte mi espone solo al rischio di diventare rigida, e prima o poi di crollare. Gli direi di non scegliere per me il momento o il modo di essermi vicino, perché solo io posso sapere quando mi fa bene la solitudine o la compagnia, cosa mi offende o mi disturba di più e persino come preferisco vivere la sofferenza quando è inevitabile. E che se ritiene tutto ciò troppo difficile da accettare o da gestire, allora la smetta almeno di declamare il suo affetto per me, il suo nobile intento di far qualcosa per “rivedermi in forma”, a meno che non sia davvero certo di non cercare semplicemente o inconsciamente di farmi tornare ad essere la persona che lui preferisce, e non quella che sono o sto cercando di diventare, recuperando tra Saturno e Urano una verità sostanziale ed antica anche se inattesa o apparentemente aliena. E alla fine tornerei da me, e mi direi che verità fa rima con dignità; sempre e comunque.
Ecco cosa farei, caro Diario, se fossi una mia amica. L’ho detto a te, perché ritenevo giusto e salutare partire da qui. Non sono una mia amica ma, poiché mi sono amica, il passo successivo è di dirlo anche a me.
Sono rimasta affacciata al parapetto del balcone per un buon quarto d’ora senza far nulla. C’è un’aria così tiepida, un cielo così sereno questa sera, che persino i rumori del mondo sembrano sopiti. Quelli esterni, della violenza e della confusione; quelli interni della paura, dello smarrimento. Ci sono momenti, soste nel tempo e oasi nello spazio, in cui il mondo è ancora bello: e non è un’illusione, è solo una dimensione diversa… forse più elevata, forse più profonda, comunque altra. Le rondini, qui nella mia zona, ci sono ancora; in centro ormai ci passano solo i rondoni, che possono competere con i piccioni in taglia e cocciutaggine. Mandrie di piccioni, altro che stormi. Qui ci sono anche tanti uccellini cinguettanti, che stanno richiamandosi al nido o raccontandosi la giornata... e quanto chiacchierano, in questi momenti tra veglia e nanna, quando il cielo è ancora luminoso ma pronto al crepuscolo! In sottofondo, qualcuno nelle case qui sotto sta suonando la chitarra. Malamente, devo dire. Ricordo i miei primi accordi, il classico "giro di Do" ripetuto in tutte le varianti, e poveri i miei familiari che mi sentivano per ore, anche se chiusa come sempre nella mia stanza! Il condominio di fronte non è vicinissimo, e i balconi sono quasi sempre deserti, le tapparelle abbassate. Questa sera invece ho visto un bimbo saltellare allegro sui due metri disponibili, con l’esuberanza di un capretto in un ettaro di prato… Dev’essere la percezione di una vita tutta ancora da esplorare a dilatare così gli spazi e i tempi dell’infanzia… Avrà avuto tre o quattro anni, indossava dei calzoncini di felpa grigi e una bella maglietta rossa con cappuccio, e si muoveva e si guardava intorno con emozionata baldanza: senza gridare, senza chiedere o chiamare la mamma o disturbare, semplicemente sorridendo, pago e fiero di esistere. Mi ha visto, in linea d’aria a una cinquantina di metri da lui ma un piano più in alto, si è fermato un attimo sollevando la testa e mi ha fatto “ciao” con la manina. Io ho ricambiato, poi lui ha ripreso a zampettare. Cosa si dicono un bimbo di quattro anni e una donna di cinquanta in un attimo fugace strappato all’esistere, senza parole da scambiarsi e senza atti da condividere? Si dicono “ciao!”… E in quel tempo fuori dal tempo, le anime forse riescono a dirsi altre cose. Ricordo quando andavo in montagna. Le passeggiate, le ferrate, le escursioni in quota sono caratterizzate dal silenzio, dalla meravigliosa solitudine, dal contatto intimo con la natura. Ma c’è una regola mai scritta eppure sempre rispettata, in montagna: quando incroci una persona, la saluti. Non accade in città, non accade al mare e nemmeno in collina. Chissà perché, accade solo in montagna. E in quel “buongiorno” c’è un mondo condiviso e scambiato. Evidentemente il comune amore per quei luoghi e quella attività, che di per sé fa sentire più simili e vicini; ma c’è anche altro e di più. E’ un saluto e insieme un augurio; una conferma e un incoraggiamento, entrambi confortanti; uno sguardo serio che comprende e non giudica, un sorriso sincero che offre e non chiede. Tutto molto semplice, vero. Una solidarietà spontanea, una autentica sympatheia. “Tutto ciò che sale, converge”… scrisse Teilhard de Chardin. Ma perché scrivo queste cose? Non lo so, e non mi importa molto saperlo. Ho mezzo Olimpo all’opera sul mio cielo… c’è chi direbbe “contro”, e in effetti non è un periodo facile. Non lo era nemmeno lo scorso anno e quello prima, ma siamo riusciti a peggiorare. O forse sono solo io che comincio ad essere in riserva di energie. Non di speranza, comunque: questo mai. Se la vita è una salita, è evidentemente anche una discesa. E mentre si cammina avanti, tra desideri e timori, e pure indietro nelle memorie e aspettative ferite… l’unica cosa veramente saggia da fare è rendersi conto che il percorso orizzontale è anche, o soprattutto, verticale. Un bimbo che corre, un uomo che suona, un uccellino che canta. E un balcone che sembra vuoto ma, come il mio cuore, non lo è.
La percezione di un’umanità in metamorfosi, di un mondo in stadio terminale, si presenta sempre più spesso e in mille forme, ma viene subito ridimensionata dal buonsenso per cui ci diciamo: su, non esageriamo, è solo un periodo difficile… Come se si trattasse semplicemente di una melodrammatica sublimazione della paura di cambiare e non, come invece sospetto, di una comoda difesa delle nostra inerzia: prima colposa, poi sempre più colpevole. Eppure non sono l’unica a vedere quanto si sta agitando la società moderna, quante persone stanno interrogandosi, tremando, desiderando, cercando alternative ad un percorso esistenziale che sembra ormai un vicolo cieco, per giunta in salita. Questione di valori, s’intende: ma sono proprio questi ad essere in crisi, non l’umanità di per sé, che pure è costretta ad entrare in crisi di conseguenza, a meno che non si decida a trovare valori nuovi a cui affidarsi e riferirsi. Che poi tanto nuovi non sono, né tanto lontani dal cuore per non poter essere afferrati… se solo riuscissimo ad allungare la mano, ad abbandonare le presunte sicurezze che ancora stringiamo, caparbiamente, negandone la dissoluzione. Mi vengono in mente certi documentari naturalistici, che ogni tanto ripropongono scene strazianti come quella della leonessa che dilania il povero cerbiatto, o peggio che non riesce a dilaniare il povero cerbiatto perché è stanca e denutrita e ha sei cuccioli che stanno morendo di fame, per cui siamo noi spettatori ad essere dilaniati tra il sollievo per il cerbiatto e il dispiacere per la leonessa… E la scena ancor più straziante della femmina di scimpanzé che continua a portare in braccio il suo cucciolo morto, finché la putrefazione non è visibile persino alle telecamere! E’ impossibile guardare certe scene senza soffrire e interrogarsi sul senso della vita. Lo sappiamo che la natura ha logiche diverse e una giustizia innegabile, ma se persino una scimmia fatica ad accettare la morte del suo piccolo, noi che di naturale abbiamo ormai poco come potremmo accettare che tutto “muore e diviene” (per dirla con Goethe) senza provare ogni volta una stretta al cuore? Cosa può permetterci di non morire anche noi quando muoiono pezzi della nostra vita? Riformulo la domanda, perché proprio oggi mia madre me l’ha posta con parole diverse: come possiamo sopravvivere alle nostre morti? Quando muoiono i sogni, gli amori, le abitudini passate e lo stesso senso del futuro che avevamo costruito, cos’è che continua a vivere? La coscienza, ho risposto. Ed ho aggiunto: che è attributo dell’anima, non della mente o della psiche.
Non preoccuparti, caro Diario. Plutone sta picchiando duro con la sua quadratura al mio Mercurio, più di quanto abbia fatto con il Sole… che già avverte le avanguardie dell’opposizione di Urano. Questione di coscienza, sì.