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LE RUBRICHE DI ERIDANOSCHOOL - Astrologia e dintorni a cura di Lidia Fassio

RUBRICHE DI ASTROLOGIA

a cura di Sandra Zagatti 
DAL DOLORE ALLA SOFFERENZA: ANDATA E RITORNO
 
Dal dolore alla sofferenza: andata e ritorno
“Prima di cercare la guarigione di qualcuno,
chiedigli se è disposto a rinunciare
alle cose che lo hanno fatto ammalare.”
(Ippocrate)


Ciò che l’astronomia ci spiega di Chirone è ancora molto poco. Dalla sua scoperta a oggi, cioè in circa quarant’anni, è stato considerato un asteroide, un satellite sfuggito, un planetoide non meglio identificato, una cometa anomala… o un insieme di tutto questo senza alcuna classificazione nota. Alla fine, l’unica certezza è che Chirone somiglia a molte cose ma le contraddice tutte, ponendosi nella sua evidenza di originalità, diversità, unicità: è un asteroide, è una cometa, sembra sia circondato anche da anelli, inoltre fa parte del gruppo degli instabili Centauri e ha un’orbita ellittica che a volte lo porta ad allontanarsi fin oltre Urano o, viceversa, ad avvicinarsi intersecando Saturno.
A proposito di orbita, mi ha sempre colpito la definizione di “non allineato” con cui il suo scopritore, Charles Kowall, lo descrisse per primo: tant’è che una tale definizione di matrice astronomica precede quella di “guaritore” suggerita in seguito dall’analisi mitologica ma è a suo modo simbolicamente valida, direi anzi – a mio parere – essenziale. Non a caso, nel mito Chirone non solo presenta la duplice natura uomo-animale tipica dei Centauri ma si differenzia dai suoi stessi confratelli: meno violento, meno ignorante, diciamo pure più umano…
Ma cosa aggiunge il mito all’astronomia? Apparentemente poco, se ci limitiamo alla definizione di non allineato, molto invece se la vediamo come condizione: un’indipendenza fatta di consapevolezza, di diversità, di solitudine e, ovviamente, di dolore. Ma non solo. Credo che la chiave di comprensione di Chirone sia nel dolore come esperienza, come processo, non soltanto come destino da accettare o subire. Di fatto, tale processo porta comunque a un’azione volontaria, quindi a una scelta, che è la rinuncia all’immortalità per mettere fine alle sue sofferenze; ma prima è stato necessario viverle, cioè appunto farne esperienza. E accettare la propria natura non perfetta, non assoluta, non intoccabile (non divina) come componente essenziale di una trasformazione sublimante.
Insomma, tra asteroide eccentrico e cometa catturata secondo l’astronomia, il mito ribadisce e chiarisce in Chirone l’ambivalenza di una realtà mai del tutto aliena all’umanità ma comunque sfuggente: che arriva, ne tocca il cuore e la carne ma non persiste, non può restare ma nemmeno allontanarsi definitivamente, proprio come con la sua orbita entra dentro la dimensione esistenziale di Saturno per poi tornare alla dimensione creativa di Urano.
La scelta finale di Chirone non è quindi una banale ribellione al destino ma una libera interpretazione che conferma il suo “non allineamento”: la sua unicità non egoistica, una solitudine che resta generosa e solidale sino alla fine. Chirone cresce attraverso la propria ferita, impara da essa per poter essere un migliore insegnante e un più efficace tutore. E impara innanzitutto la differenza tra il dolore in sé – quasi sempre oggettivo, causato da un evento, appunto da una ferita – e la sofferenza che ne deriva come reazione soggettiva, resistenza e rifiuto della causa del dolore stesso.
Ma dunque… Non posso affermare di conoscere benissimo il Chirone astrologico; come molti colleghi, ho iniziato a inserirlo nei grafici da molti anni ma è un elemento ovviamente ancora da comprendere a fondo. Tuttavia, non mi ha mai convinta completamente la sua associazione con la figura del guaritore mitologico. Credo infatti che la vera guarigione sia rappresentata da Nettuno, mentre definirei Chirone piuttosto un “diagnosta”, che in quanto tale simboleggia una fase precedente. Intendo dire che, in quanto insegnante oltre che medico, grazie a Chirone possiamo comprendere ciò che necessita di cure in noi e da noi, il che è sicuramente il primo e irrinunciabile passo per intraprendere un processo di (auto)guarigione ma non assicura l’esito finale e forse nemmeno coincide con la terapia.
D’altra parte, il suo ipotetico domicilio in Sagittario ben si confà al fecondo dinamismo di un processo che ha inizio dalla consapevolezza ma si lancia, come la freccia dell’Arciere, verso il traguardo ancora ignoto di un futuro in divenire. Una freccia indicatrice, appunto; una freccia amara ma non avvelenata come quella che colpì Chirone, bensì medicamentosa. Insomma un rimedio quasi omeopatico, laddove è il dolore attuale a sanare il dolore antico: è il simile a guarire il simile. E non è il guaritore a sanare la ferita ma la ferita stessa a creare il guaritore…
Quella freccia, infatti, prima di essere scagliata deve innanzitutto indicare “il luogo del dolore”, aprirsi un varco dentro la rigidità protettiva delle cicatrici, intingersi nel sangue resuscitato per portarlo fuori, avanti, oltre. Oltre Saturno e il Capricorno, oltre Urano e l’Acquario, per poi approdare nei Pesci e lasciare a Nettuno il compito risolutivo; perché Chirone non arriva fin là, ma la sua freccia – ciò che indica – sì.


Pensiamo alla cultura della sofferenza della nostra era moderna. Da un lato il dolore viene rifiutato, rimosso, considerato un nemico da combattere con farmaci che eliminano il sintomo, e prima lo fanno meglio è. Eppure, paradossalmente, la sofferenza non è stata debellata, direi anzi che la maggioranza delle persone soffre quotidianamente: per depressione, per demotivazione, per bisogno, per solitudine, per frustrazione, per delusione, per perdita di senso… e per paura, sia della morte che della malattia. Mentre l’arrogante miraggio di immortalità finisce per rendere la vita stessa una menzogna, una contraddizione, un paradosso innaturale e, per questo, ancor più doloroso.
Così, se proviamo un qualche dolore anche banale, un’emicrania o una semplice slogatura, la nostra prima reazione è di rifiuto: tendiamo a bloccare la respirazione, a contrarre i muscoli, sperando di allontanare il dolore dal nostro corpo o di “sopportarlo” meglio, mentre invece lo concentriamo e amplifichiamo. È un automatismo, talmente inconscio che non ce ne rendiamo conto: semplicemente non vogliamo il dolore e non lo accettiamo come nostro, infatti diciamo “mi fa male la testa, la caviglia”… come se fossero soggetti autonomi e separati da noi, che con quel dolore non c’entriamo nulla né lo meritiamo! Ovviamente non funziona, e allora ricorriamo ai farmaci antidolorifici, che in quel momento sentiamo come nostri alleati più della testa o della caviglia ma che possono dare solo una momentanea e apparente soluzione, tant’è che – se la causa è seria – il dolore torna.
E purtroppo facciamo la stessa cosa con il dolore emotivo, affettivo, psicologico. Ci irrigidiamo, smettiamo di “respirare” e ci concentriamo in un’apnea vitale alla ricerca di una causa esterna (il compagno che ci ha lasciato, la gente che non ci capisce, il capufficio che ce l’ha con noi). Reagiamo, sì, nel tentativo di cacciare il dolore, ma solo sostituendolo con la rabbia, l’autocommiserazione, il disincanto, l’offesa, il rancore. E, “allineandoci” al rifiuto collettivo, generalizziamo (gli uomini sono tutti uguali, alla gente importa solo il denaro, non c’è giustizia a questo mondo), rifiutando in tal modo anche qualsiasi sospetto di complicità in ciò che proviamo. Così il dolore si trasforma in sofferenza e si cronicizza in modo sterile, ormai allontanato dalla propria causa primaria, dal significato personale e quindi dal ruolo che poteva avere. Né ci rendiamo conto di applicare ai pensieri, alle emozioni, ai sentimenti e ai comportamenti la stessa rigida chiusura con cui istintivamente reagiamo al dolore fisico. E alla fine, la colpa non è più della caviglia o del capufficio: siamo noi a stare male, solo che non sappiamo più perché.

Ecco il motivo per cui la funzione di Chirone è cruciale, pur non essendo risolutiva in sé. Chirone ci insegna che noi non abbiamo dolore ma siamo quel dolore. Ed ecco perché la sua posizione nel tema natale non descrive, a mio parere, se o quanto possediamo la capacità di guarire gli altri, ad esempio in veste di medici, psicologi, operatori… ma l’energia primaria che in noi è stata ferita (segno), nonché le esperienze della vita (casa) in cui il dolore tende a cronicizzarsi ma anche ad evidenziarsi, magari durante i suoi transiti, con fenomeni acuti e in quanto tali illuminanti. Quindi non da rifiutare o allontanare ma da accogliere e capire.
In fondo, il Chirone mitologico non compie l’errore (tanto insidioso quanto diffuso) di affezionarsi alla propria ferita, cullandola in un bozzolo di orgogliosa pena, ma convive con il dolore senza smettere di respirare fino al momento in cui sceglie di liberarsene, nell’unico modo a disposizione; che è anche l’unico valido. Accetta di “umiliare” la propria divinità entrando nella realtà materiale del corpo, nobilitando in tal modo la propria componente umana; accetta l’esperienza fisica come strumento conoscitivo e continua a insegnare, a curare, a guidare; accetta i propri limiti e poi se ne affranca con un dono, tornando infine nel regno celeste. E così facendo traccia anche per noi il percorso della liberazione-guarigione come evento di coscienza, di scelta, di rinuncia e trasformazione.
Non a caso il suo glifo è a forma di chiave, laddove Chirone rappresenta un’apertura verso i pianeti esterni ma soprattutto un intermediario, che porta oltre ciò che siamo e porta quell’altrove nel qui e ora; ed è così che la sua ferita diventa uno squarcio nel buio che dà al dolore un ruolo e non solo una dignità, trasformandolo in varco di luce.
Chirone ci fornisce quella chiave, non un antidolorifico e nemmeno una cura preconfezionata. Può aiutarci a capire cosa è accaduto davvero (perché in tutte le comete c’è una coda, una memoria) e cosa possiamo fare da noi e per noi (perché tutte le comete hanno una direzione, una luce da portare avanti). Può suggerirci di accettare il dolore, smettere di opporvi resistenza e riconoscerlo, “diagnosticarlo” appunto, ricostruirne la storia e restituirgli valore; per poi lasciarlo andare. Tornare indietro, tornare dentro, e solo allora – finalmente – tornare a riveder le stelle.
Perché l’unica via d’uscita è innanzitutto una via d’entrata… ma in entrambi i casi la porta, la ferita, va aperta.





 
 
 
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