ERIDANO SCHOOL - Astrologia e dintorni
 
La Stella e i fondamenti dell’astrologia
a cura di Pietro Mander
Inserito il su Eridano School - Astrologia e dintorni
 
La Stella e i fondamenti dell’astrologia
Pubblicato sul n. 1/2007 della rivista HIRAM

1. Le stelle: il cielo stellato e il tempo meteorico.

Da sempre abbiamo alzato gli occhi al cielo notturno trapunto di stelle; abbiamo provato meraviglia, fascino e, approfondendo le osservazioni, due realtà ci sono apparse costantemente in confronto: il volgere regolare della volta celeste (il tempo) e la variabilità del tempometeorico e del clima.
Infatti, al regolare inizio della stagione, determinato dalla posizione della sfera celeste, corrispondono i capricci climatici, quali quelli che ci hanno offerto un Aprile estivo nel 2003 ed
uno quasi invernale nel 2006. Tuttavia, la primavera prima o poi, bene o male, in quel periodo dell’anno è arrivata.
Le stagioni metereologiche sembrano il riflesso in uno specchio deformante di quelle astronomiche, come ebbe a dire un archeoastronomo.
Non sono l’unico (Melville – Putnam 1993: 6, Aveni 1997: 2) ad essere persuaso che questa differenza abbia offerto la rappresentazione sensibile che si è poi sviluppata in concezioni filosofiche quali il Cielo immutabile degli dèi, mondo della necessità e dell’assoluto e il mondo sub-lunare della generazione e del divenire delle forme, concezioni espresse con linguaggio astratto dall’epoca di Platone e Aristotele in poi.
Ma non si vuole qui entrare nel merito delle vicende del pensiero filosofico, quanto piuttosto riflettere sulle origini dell’astrologia.
Mi sono soffermato a delineare un’immagine che serve solo a porre nella giusta importanza culturale l’osservazione della regolarità del firmamento; la misura del tempo.

2. I testi più antichi

Chi scrive sta ben attento a non farsi tacciare di “pan-babilonismo”: non credo affatto che tutto abbia avuto inizio a Babilonia! Se prendiamo in considerazione le tavolette d’argilla scritte in caratteri cuneiformi (d’ora in avanti useremo l’abbreviazione: “tavolette cuneiformi”) è solo perché l’argilla è un materiale che sopporta bene lo scorrere del tempo; quando è cotta, poi, diviene quasi indistruttibile.
Quindi, per esplorare il pensiero più antico, dobbiamo giocoforza basarci su quella documentazione in cuneiforme, per due motivi cogenti.
Il primo, come s’è detto, perché ci è pervenuta copiosa, grazie all’argilla, in secondo luogo, in quanto essa costituisce la prima documentazione in assoluto, perché è proprio nella bassa Mesopotamia (la zona attorno alla regione di Nasiryah, dove hanno operato i nostri militari) che fu inventata la scrittura (da un genio sconosciuto? da un gruppo di sapienti? magari riuscissimo a saperne qualcosa!), alla fine del IV millennio a. C. (circa 3100 a. C.).
Non vogliamo affermare però che chi abbia messo per iscritto un qualsiasi pensiero ne abbia di necessità la paternità; egli, piuttosto, potrebbe averlo raccolto, e, metabolizzandolo opportunamente, potrebbe averlo elaborato da tradizioni ed esperienze allogene di chi, magari, non aveva l’uso delle lettere o da concezioni comuni diffuse nell’area.
Allora, dopo questa precisazione, andiamo avanti con le tavolette cuneiformi.
Ne possediamo un numero altissimo, e provengono da oltre tre millenni di storia della Mesopotamia (le ultime forse furono scritte nel III sec. d. C.!). Inoltre, solo per alcuni periodi, abbiamo trovato tavolette cuneiformi, anche con testi mesopotamici, dall’Anatolia hittita hurrita, dalla Siria e dall’Iran. Solo quelle mesopotamiche costituiscono un patrimonio epigrafico più copioso di quello di tutta l’antichità classica messa assieme.
Di queste tavolette moltissime hanno contenuto amministrativo ed economico (e sono testimonianze utilissime per ricostruire quegli antichi sistemi di distribuzione delle ricchezze), ma ve ne sono anche molte a contenuto religioso, e sono a quest’ultime che rivolgeremo l’attenzione.

3. Gli dèi e le stelle.

Non mi soffermerò sulla questione se la divinità debba essere identificata con l’astro che le corrisponde o se quest’ultimo ne sia solo una manifestazione, dal momento che, come si vedrà in seguito, questo problema nasce nella critica moderna a causa della proiezione di categorie mentali odierne sulle realtà antiche.
Fin dal III millennio a. C. appare evidente il rapporto tra divinità e stella. Questo non è definito solo dal melam, il fulgore terrificante che avvolge gli esseri divini, ma dall’azione esercitata dalle stelle stesse nelle vicende umane. Infatti, se da un lato è dalle stelle che discendono i mali sull’uomo, è anche attraverso di esse, sia con le preghiere, che con rituali ed amuleti, che si rendono efficaci le contromisure ai mali stessi: in queste loro funzioni, le stelle appaiono come intermediarie tra l’Uomo e gli dèi (Reiner 1995: cap. 1, dove la studiosa paragona il ruolo delle stelle a quello dei santi nelle religioni odierne).
L’arte farmaceutica (a base “magica”, evidentemente) prescriveva l’epoca e il momento, in cui raccogliere radici o erbe e quando lavorarle, in base alla posizione degli astri (Reiner 1995: cap. 2); per molti preparati terapeutici era prescritto che dovessero “passare la notte sul tetto” o “passare la notte sotto le stelle”, per assorbirne le qualità taumaturgiche (Reiner 1995: 45, 52).
Queste misure erano accompagnate dalla recitazione di incantesimi appropriati e si, estendevano anche alla confezione di amuleti apotropaici, fatti con pietre incise su cui si lasciava cadere la luce stellare (Reiner 1995: cap. 7).
Concludo riferendo sulla preghiera, molto suggestiva, che il sacerdote divinatore, il barû, recitava la notte precedente il sacrificio dell’agnello il cui fegato avrebbe esaminato; ne riferisco l’inizio:
“Dormono profondamente i signori, / i chiavistelli sono abbassati, le porte sprangate, / anche la gente comune non proferisce suono, / le porte (delle loro abitazioni, usualmente) aperte, sono sbarrate. / Gli dèi e le dee del paese, / (il dio del Sole) Shamash, (il dio della Luna) Sîn, (il dio della tempesta) Adad e (la dea del pianeta Venere) Ishtar, / sono tornati a dormire in Cielo: / essi non emetterannoverdetti stanotte. / ... Possano i grandi dèi della notte, la splendente Stella-di-fuoco / il valido (dio delle epidemie) Erra, / la Stella-arco (parte di Canis major), la Stellagiogo,
/ Orione, la Stella-Dragone, / il Carro ( Ursa major), la Stella-capra ( Lyra), / la Stella-bisonte ( Ophiuchus), la Stella-serpente ( Hydra)/ stare presso di me e / dare un segno propizio / sull’agnello che io sto ora benedicendo / per l’oracolo che trarrò
domani (all’alba)” (Reiner 1995: 1-2, 61-79)
Sembra di sentire l’inizio del Canto II (1-7) dell’ Inferno di Dante:
“Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietade, che ritrarrà la mente che non erra. / O Muse, o alto ingegno, or
m’aiutate”
Come il barû anche Dante stava per intraprendere un percorso di conoscenza ed invocava le entità divine!

4. L’elemento divino nell’uomo.

I testi mitologici riferiscono su un evento che sconvolse il mondo divino, prima che l’Uomo fosse creato: anzi, che fu causa della creazione dell’Uomo.
Gli dèi inferiori erano gravati dal compito di mandare avanti l’universo: questa fatica era rappresentata visivamente dal lavoro necessario per scavare e drenare i canali; paragone che fa venire in mente il panta rei “tutto scorre” di Eraclito. La Mesopotamia sarebbe stata un’estensione dell’arido deserto siriano senza l’acqua dei due grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate, dai quali si facevano derivare le indispensabili reti di canalizzazione.
Poiché la fatica era davvero intollerabile, gli dèi inferiori si ribellarono.
Scesero in sciopero e circondarono la reggia dei grandi dèi: la situazione divenne critica.
Fu allora che il dio demiurgo Enki propose, come soluzione della crisi, la creazione dell’Uomo, in modo che questi sollevasse gli dèi inferiori dal loro compito, sostituendoli. L’assemblea dei grandi dèi accettò e l’accordo fu concluso, anche se il capo della rivolta degli dèi inferiori fu messo comunque a morte (non in tutte le mitologie gli dèi sono immortali! E poi, come vedremo, quella forza cosmica, che quel dio rappresentava, non si estinse di certo!).
Il dio demiurgo Enki, insieme alla dea madre Ninmah si misero all’opera. Presero dell’argilla e l’impastarono col sangue del dio leader della rivolta (per certi versi vengono in mente dei confronti con Prometeo): grazie a questo apporto l’Uomo ha in sé l’intelligenza (unico vivente ad esserne dotato) e anche una componente divina, seppure rappresa nell’argilla.
L’Uomo quindi si trova – secondo questa concezione – al centro dell’universo, dove svolge un compito divino, che chiaramente consiste nel mandare a compimento i disegni degli dèi. Per rendere operativa l’esecuzione di questa missione “cosmica”, gli dèi riunirono gli uomini in città (parola da cui deriva “civiltà”) e vi “fecero discendere” (come recitano i testi) l’istituto regale e il culto. In tutto l’universo solo l’Uomo era socialmente organizzato in strutture gerarchizzate, rappresentate dalla vita cittadina, era governato da sovrani ed era in grado di erigere templi agli dèi, ove celebrare i riti religiosi. Questi tre vitali requisiti permisero all’Uomo di sostituire gli dèi inferiori e di condurre il mondo in loro vece.
Vorrei soffermarmi brevemente sull’istituto regale: il re funge da traitd’union tra il Cielo degli dèi ed il mondo degli uomini; per lui i sacerdoti divinatori traggono gli oracoli, in modo che egli sappia cosa gli dèi vogliono. I suoi peccati sono pagati da tutto il regno, mentre questo prospera se il sovrano è realmente pio. Quindi il re deve scrupolosamente attuare i voleri divini, che i sacerdoti barû, esperti nel trarre gli oracoli, di volta in volta gli rivelano.
Ma torniamo alla componente divina mescolata all’argilla.
La “psicologia mesopotamica” – pur nelle sue varianti – considera l’essere umano costituito da un “ sitema di anime multiple esterno”, ovvero considerano l’Uomo un essere composto da diversi elementi, di diversa origine e provenienza. Non mi posso soffermare su questa concezione, così interessante anche se complessa (in ambito esoterico qualcosa di simile è sostenuto anche oggi: si veda Brunelli 1981: 106 nota 5), concezione che gli antropologi riferiscono ai sistemi cosiddetti
“politeistici” (Augé 2002: 49-53).
Mi soffermerò solo su uno di essi, ovvero quello che viene chiamato (non molto propriamente, invero) il “dio personale” (cui fa riscontro la “dea personale”, quale sdoppiamento di polarità).
Quando i testi parlano dell’origine della persona umana, la descrivono con l’espressione “generata dal suo dio e dalla sua dea (personali)”, generazione che corre su un piano parallelo a quello corporeo, di cui si dice che la stessa persona è stata generata dai suoi genitori naturali. È importante notare, come ha rilevato l’assiriologo Jacob Klein (Klein 1982: 295-306), che i testi usano due verbi diversi per esprimere l’atto del generare, a seconda se esso sia effettuato dalla coppia divina o da quella umana. Senza dubbio, come intuì chiaramente Mircea Eliade (Eliade 1979: 69-98), il “dio personale” non è un’entità estranea, ma costituisce l’elemento divino nell’uomo, quell’elemento la cui origine si deve ricercare nel sangue del dio ucciso con cui fu impastata l’argilla
dell’antropogonia.
Concludo questo argomento con un esempio significativo di un tema tanto vasto e complesso: il testo che tratta della prigione della dea Nungal.
Esiste un inno sumerico rivolto a questa dea, che è la responsabile di un carcere posto all’interno del grande complesso templare nella città santa di Nippur, dimora del signore degli dèi e del cosmo, il dio Enlil (= “Signore-vento”). In questo carcere patisce prigionia l’uomo che è stato abbandonato dal suo “dio personale”.
Sappiamo che questa separazione è causata da contaminazioni rituali, violazioni di tabù, colpe di diverso tipo, anche se non tutte consapevoli o intenzionali. Quest’uomo – riferisce l’inno – si sottopone ad un’ordalia fluviale, superata la quale ritorna “puro” (mondato dalle acque) e si riconcilia col suo “dio personale”. Non tutto è chiaro nel testo dell’inno, ma la prigionia vista come contrapposizione all’accordo col “dio personale” e la relativa riconciliazione dopo la purificazione (e il giudizio, implicito nel concetto stesso di ordalia) direi che possano rapportarsi alle “oscure e profonde prigioni” del vizio della nostra Tradizione.

5. Il rituale di contro-magia nera maqlû.

Sembra che fosse celebrato alla fine del mese di Abu, nel periodo che corrisponde alla nostra ultima decade d’Agosto, allorché si aprivano quei canali invisibili che connettevano gli inferi al mondo dei vivi: un periodo dell’anno come Halloween o il nostro Carnevale, allorché i nostri antenati dicevano mundus patet, intendendo che i morti risalivano e si mescolavano ai vivi.
Il rituale maqlû (che è stato studiato a fondo da Abusch 2002) cominciava la notte e poi lo si terminava la mattina seguente. Forse protagonista ne era il re o qualche personaggio di alto livello, ma non abbiamo notizie certe. Lo assisteva lo àshipu, l’esorcista, un sacerdote specializzato, che aveva conseguito il suo livello perché era anche colto: nelle case di famiglie di questi sacerdoti si sono trovate biblioteche intere di tavolette cuneiformi su miti, manuali di divinazione e di esorcismi.
Il nemico era la strega (o lo stregone) che aveva messo in atto un rituale di magia nera, causando ingiusti dolori e sfortune al protagonista.
Ma non è solo la strega viva ad essere presa di mira, ma anche quella morta, emersa dalle plaghe oscure dell’inferno, come uno spettro maligno, assetata di malvagità.
L’atmosfera in cui si svolge il rituale è delle più cupe. All’inizio sono invocate le divinità infere perché sia posta sotto processo la strega o il fantasma della strega che ha violato l’ordine cosmico ponendo in essere i suoi sortilegi, in spergio ai vincoli degli dèi. La prima parte ha quindi l’esatto aspetto di un processo, in cui si enumerano i crimini e si indica il colpevole al giudizio degli dèi.
Ma siccome il processo si svolge su due fronti, occorre agire su entrambi separatamente. Sul tetto dell’edificio, testimone lo scintillio delle stelle, si svolge la prima cerimonia, atta a chiedere agli dèi la necessaria purificazione. Quest’atto blocca la strega viva sotto il giudizio dei Celesti. Poi si deve procedere contro la strega morta, quindi il sacerdote deve rivolgersi alle divinità infere. Anche in questo caso lo scopo è quello di bloccare lo spettro della strega, in modo che non possa né rifugiarsi negli inferi, aspettando migliore occasione per colpire di nuovo, né lanciarsi in terra, per condurre nuovi attacchi: per quanto riguarda il terzo regno, lo splendore degli astri le preclude la fuga verso i Cieli.
La procedura ricorda nettamente le pratiche sciamaniche, perché il sacerdote deve discendere l’ Axis mundi, l’asse del mondo che collega Cielo, terra ed inferi, in modo da poter avvicinare le divinità dell’oltretomba. Per compiere questa operazione egli chiede la purificazione agli dèi celesti, e quindi, come loro, avvolto di splendore stellare, può scendere agli inferi, seguendo il percorso che quotidianamente tracciano gli astri, quando, tramontando, scendono nel regno delle tenebre ad Occidente, per poi riapparire il giorno dopo ad Oriente.
Abbiamo ricordato al paragrafo precedente la funzione intermediatrice delle stelle, che fungono anche da messaggere. Come esito di questa cerimonia, da un lato la strega, sia essa viva, o uno spettro, resta intrappolata tra inferi, Cielo e terra, in un luogo virtuale dove dovrà rispondere dei suoi crimini. Dall’altro lato, l’uomo che si è trasformato in stella non è più l’uomo di prima. Ora lo splendore stellare che lo avvolge lo rende invulnerabile agli attacchi delle entità malefiche.
Come le stelle egli veglia nella notte e quindi ha piena consapevolezza di ciò che accade, tanto che si identifica con gli astri. La sua coscienza è piena, la strega non potrà attaccarlo nel sogno, né farlo trapassare da quell’immagine della morte che è il sonno. Egli affronta la notte infestata dagli spettri senza pericoli; come la luce delle stelle è attiva nella notte, così la sua forza potrà, unita a quella delle stelle del cielo, colpire la strega.

Il rituale maqlû culmina con l’atto di gettare nel fuoco l’immagine della strega ( maqlû vuol dire “combustione”), in modo che essa venga definitivamente annientata e si disperda, senza aver possibilità neppure di ritornare come fantasma. Abusch si chiede se l’identificazione con la stella non sia una visione onirica ottenuta in un rito di incubazione, simile a quelle degli sciamani o dei Benandanti descritti da Carlo Ginzburg.

6.L’Io

Lasciamo per un momento l’antica Mesopotamia e i suoi riti e rivolgiamoci a ricerche contemporanee. Mi riferisco alla psicologia di Roberto Assagioli, che comprende non solo gli aspetti coscienti dell’“Io”, e quelli delle profondità dell’inconscio, sia individuale che collettivo, ma anche le “altezze” del supercosciente e del Sé spirituale.
La ricerca di Assagioli quindi risponde alla critica che Guénon aveva mosso alle scienze psicologiche, per le quali nello stesso elemento, l’inconscio, appunto, indifferentemente confluivano in modo confuso tanto realtà spirituali che pulsioni inferiori (Guénon 1982: 223-229).

Quest’impostazione fu naturalmente condivisa dal Fratello Francesco Brunelli, che sviluppò, in comunione d’intenti con Assagioli, gli aspetti esoterici di quella ricerca (Brunelli 1981: 81-107). Nel suo manuale introduttivo Psicosintesi, Assagioli (Assagioli 1993: cap. 1) illustra l’illusorietà dell’unità dell’“Io” cosciente, che in realtà consiste in una molteplicità indefinibile di elementi diversi: un’eccellente illustrazione di questa realtà si riscontra nella lettura del romanzo di Pirandello Uno, nessuno, centomila, che descrive sottilmente come il protagonista scopra in modo graduale l’inconsistenza della propria immagine e personalità (Assagioli 1993: 15).
Lo stesso tema si riscontra presso un americano che si è convertito al Buddhismo, Stephen Levine; il suo punto di vista riguardo l’illusione dell’“Io” è particolarmente interessante, dal momento che egli appartiene alla nostra stessa cultura, e quindi riesce più efficacemente a comunicare con noi di quanto possano i monaci tibetani che giungono a predicare in Occidente. Levine parla dell’“Io” come di una scimmia che balza di ramo in ramo, a seconda di dove s’appunti l’attenzione del nostro pensiero cosciente (Levine 1998: cap. 4, 63 ss.). Brunelli sviluppa ulteriormente il tema, individundo un tipo di persona “non evoluta”, che reagisce solo agli stimoli ed impulsi esterni, e per la quale quindi l’“Io” è pressocché inesistente, rispetto a chi comincia a costituire il proprio centro che organizza e dirige i contenuti del campo della coscienza.
Lo stadio successivo consiste nella percezione dell’inconscio superiore e consente d’intraprendere un percorso verso l’unione con esso (Brunelli 1981: 96-99). Assagioli porta diversi esempi, tra cui quello di Wolfang Goethe, di personaggi che riuscirono a condurre a compimento il processo di unificazione con la sfera superiore (Assagioli 1993: 16): sul versante esoterico, l’Iniziazione è il momento reale che dà inizio a tale percorso (Brunelli 1981: 102).

Riassumendo il quadro assunto da Assagioli e Brunelli, alla sfera dell’inconscio inferiore, si appoggia l’inconscio medio, in cui si colloca il cerchio formato dal raggio dell’“Io” cosciente. Tutto attorno, indefinibile, s’estende l’inconscio collettivo. Al di sopra del cerchio della coscienza, si colloca l’inconscio superiore o supercosciente, che culmina con il Sé Superiore.
È importante distinguere questo Sé spirituale dal supercosciente, in cui sempre si svolgono dinamiche cui partecipano diversi elementi, mentre “il Sé è immobile, stabile, immutabile” (Assagioli 1988: 26). Questo Sé si riflette nell’“Io” cosciente, entrambi centri unificatori, seppure a livelli diversi (Assagioli 1993: cap. 6).

Se ora ritorniamo all’esperienza mesopotamica, possiamo riconoscere nel linguaggio figurato del pensiero mitico i processi che il linguaggio astratto moderno descrive come unione con l’elemento superiore (ovvero la “psicosintesi”), e quindi nella stella – in cui l’Uomo infine si trasforma, al termine di una drammatica lotta contro le forze disgregatrici ed ipnotizzanti della stregoneria – la rappresentazione. di quello che Brunelli chiama “Uomo evoluto” se non “Uomo totale” (Brunelli 1981: 99)
Nel pensiero esoterico anche Kremmerz associa la stella all’Uomo evoluto e, in particolare, sottolinea il risalto della luce stellare contro “il fondo cupo del cielo, dove la divinità e i fati si celano” (Kremmerz 1982: 36).

7 L’astrologia caldea, egizia e greca

Molto succintamente, per non stremare “il mio lettore”, traccio il percorso che arriva all’astrologia moderna. Nei testi di divinazione più antichi, sempre in Mesopotamia, sono raccolti sistematicamente oracoli celesti, ovvero oracoli che sono determinati dalla mera visione del fenomeno, così come appare, scevra da qualsiasi riflessione astronomico-matematica. In altre parole, in quelle raccolte, non solo si tenne conto
se un astro ne copre un altro, ma anche se l’astro sarà visibile o meno a causa delle nuvole, se apparirà circonfuso da un alone, oppure sfocato dalla foschia, e altre condizioni ancora, legate anche alla metereologia, ed in cui non ricorre alcuna considerazione di natura astronomica. Diamo qualche esempio.

“Se la Luna, il giorno 1 (del mese in oggetto), quando sorge, il suo corno sinistro è smussato e Mercurio (/ Venere) sta a lato: per tre anni il nemico divorerà il paese di Amurru (= Occidente)” “Se la Luna nel vasto (?) cielo è rossa: l’orzo scarseggerà”
“Se la Luna sorge in un momento non previsto ed è scura: sventura per (la città di) Ur, il trono cambierà (= rovesciamento dinastico)” (Verderame 2002: 15).

Come si vede, gli aspetti “astronomici” sono del tutto assenti, se, addirittura, si osserva un’inattesa apparizione dell’astro d’argento! In questi riguardi, piuttosto che di astrologia, dovremmo parlare di omina celesti, da includere in quella prima parte della divinazione assiro-babilonese che si occupa di oracoli spontanei, non provocati, quali possono essere la nascita di un essere deforme o il cadere di una folgore, l’apparire improvviso di una serpe (il nostro gatto nero che attraversa la strada viene da lì). A questa parte se ne oppone un’altra, in cui il verdetto è oggetto di indagine volontaria, come la lecanomanzia, allorché si gettano gocce d’acqua in un bacile di olio o si esamina il fegato di un agnello sacrificato.

I presagi celesti, quindi, si incanalano insieme a tutte le altre discipline divinatorie babilonesi e assire, i cui principi generali – ma con molte variazioni – si possono riassumere in una schematicità che colloca sulla destra (che i Latini chiameranno pars familiaris) i segni favorevoli o, se negativi, sfavorevoli per il nemico, mentre sulla sinistra ( pars hostilis) i segni positivi come favorevoli al nemico o, se negativi, a lui contrari (e, quindi, a noi favorevoli: Koch-Westenholz: cap. 5).
Non si stupisca per la terminologia latina: la principale tecnica divinatoria mesopotamica, l’estispicina o epatoscopia, esame del fegato della vittima, giunse sulle coste tirreniche e fu acquisita dagli Etruschi (Meyer 1987: 270).
Si deve immaginare che per gli antichi mesopotasmici tutto l’universo era collegato da una fitta rete di analogie, che connettevano tra loro le realtà più disparate, secondo principi a noi chiari solo molto raramente.
In un cosmo siffatto, gli dèi (in quanto forze cosmiche) agivano quali “centri” di tali reti e quindi moltissimi eventi erano interpretati o come segni che rivelavano le loro intenzioni, oppure come messaggi, che gli dèi inviavano agli uomini.
Nel V sec. a. C. invece si verificò una profonda trasformazione; non è possibile, in questa sede, esaminarne le ragioni, che in parte ci sfuggono. Certamente le sistematiche osservazioni che i sacerdoti effettuarono per secoli, prendendo nota del levare e del tramontare dei singoli astri, produsse una grande quantità di dati, che fu poi la base di queste speculazioni. Si pensi che perfino il grande Tolomeo
(II sec. d. C.), per formulare la sua dottrina del sistema planetario, si avvalse di questo materiale babilonese (Barton 1994: 19, 30-31; Hunger – Pingree 1999: 97, 144, 156-159; Rochberg 2004: 9)
Fu individuato in quel periodo il ciclo detto “ Saros”, di circa 18 anni, in base al quale predire le possibilità di eclissi e un ciclo di 19 anni, che consentì di “pareggiare” il numero delle lunazioni con gli anni solari.
Ma da questo periodo ebbe anche inizio una nuova destinazione della divinazione celeste, perché non fu rivolta solo al re e quindi al paese, ma anche alla persona comune (Rochberg 2004: 101).
Poco più tardi fu introdotta la scansione in 12 segmenti (segni) di 30º dell’eclittica, lo zodiaco, innovazione che trasformò la tradizione degli omina celesti (Rochberg 2004: 117).

In questo quadro di profonde trasformazioni, a partire appunto dal V sec. a. C., appaiono i primi oroscopi, caratterizzati dalla formula “Il neonato è venuto alla luce”, come indicazione del momento del tema natale. Seppure in piccolo numero, gli oroscopi babilonesi provengono da un periodo che si estende fino al I sec. a. C. e, probabilmente, sono fra gli ultimi testi redatti in cuneiforme su tavolette d’argilla. Dopo l’estinzione di questo genere, appaiono i primo oroscopi greci (Rochberg 2004: 99-100), che raccolgono, in pieno periodo ellenistico, l’eredità babilonese, sviluppandola con l’inclusione di altre influenze culturali, quali il pensiero stoico e aristotelico (Rochberg 2004: 100).

D’altra parte, già dal VI sec. a. C. era evidente l’influenza del pensiero cosmologico mesopotamico su quello greco (Barton 1994: 21). L’unità culturale del bacino orientale del Mediterraneo, attuata dall’impero persiano prima e dall’ellenismo poi, ha pertanto costituito l’ambiente culturale idoneo per la diffusione e l’elaborazione di esperienze locali che altrimenti difficilmente si sarebbero potute trasmettere altrove: è questo il caso anche dell’Egitto (Rochberg 2004: 10; Barton 1994: 19-31; Hunger – Pingree 1999: 31).
L’epoca tolemaica a sua volta vide l’Egitto divenire centro d’irradiazione dell’astrologia, sia inclusa nella letteratura ermetica (Barton 1994: 25-27), sia in forma di oroscopi (Barton 1994: 27) in tutto l’eucumene ellenistico-romano.
Naturalmente anche l’Egitto recò il suo contributo al prestito mesopotamico, in alcuni aspetti, quali la regolarità del calendario e la funzione dei decani (Barton 1994: 19-20).
La “rivoluzione matematica” del V sec. a. C. da Babilonia aveva fornito la spinta propulsiva che aveva, a sua volta, attivato sviluppi fecondi che si diffusero in tutto il mondo mediterraneo.

8.Perché l’astrologia.
È il momento di stringere i nodi.
Nell’Uomo è presente una componente divina, come s’è visto sopra, al 4; questa componente funge da “centro unificatore” (terminologia di Assagioli: § 6), come si può dedurre dall’inno alla dea Nungal e dal rituale di contro-magia nera maqlû , cui s’è fatto cenno innanzi (vedisopra, 5).
Questo “Centro” condivide con la volta stellata il carattere di essere ad un tempo al di sopra del contingente (vedi § 1 e § 6) e al tempo stesso in contatto con esso, riflettendosinell’“io” cosciente (vedi § 6) e pertanto è rappresentabile da un oggetto di natura celeste, quale appunto la stella. Se ritorniamo al “dio personale” dell’antica Mesopotamia (§ 4) e alle stelle come rappresentazione del divino (§ 3), non sembrerà strano associare l’elemento divino nell’uomo ad un astro: e, difatti, il rituale maqlû conferma quest’associazione.

Nel pensiero greco Pitagora, su base matematica stabilì rapporti tra i corpi celesti, elaborando la teoria dell’“armonia delle sfere”, e, consonantemente agli antichi assiro-babilonesi, concepì il ritorno dell’anima tra le stelle del firmamento alla morte dell’individuo (Barton 1994: 21; Abusch 2002: 276); dottrine che Platone riprese, associando l’anima alle stelle (Barton 1994: 109).
Io ritengo che, fra le tante discipline divinatorie praticate nell’antica Mesopotamia, e delle quali possediamo una certa documentazione epigrafica, l’astrologia sia assurta al ruolo più alto, e quindi è stata recepita attivamente in ambienti diversi in un’areadi diffusione amplissima, perché da un lato poggiava sull’astronomia matematica, l’innovazione del V sec. a. C. La matematica, nella sua assoluta logicità, rispecchia ad un livello astratto la regolarità della rotazione della volta stellata nel mondo sensibile. L’astronomia / astrologia matematica coniuga indissolubilmente i due aspetti.
In secondo luogo, oggetto dell’astronomia / astrologia matematica è la volta stellata e la stella, come s’è detto, rappresenta l’“Io” nel culmine del suo percorso unificatore.
Come chiarice Guénon, la posizione degli astri esprime l’armonia tra il Cielo stellato e l’individuo (Guénon 1971).
Non a caso, tutte e tre le cantiche della Divina Commedia terminano con la parola “stelle”.
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