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Originariamente la parola complesso significa insieme e nell’ambito della psicologia è stato C, G, Jung ad utilizzare per primo questo termine in senso psicologico. In psicologia il complesso si evidenzia attraverso la manifestazione di sintomi e spesso riguarda comportamenti e atteggiamenti molto particolari. Per esempio le persone insicure che hanno difficoltà a stabilire rapporti col mondo e che si scusano continuamente soffrono di un complesso d’inferiorità come può accadere a coloro che hanno un atteggiamento prepotente e aggressivo che utilizzano, inconsciamente, per coprire lo stesso tipo di complesso. Sovente i complessi e i sintomi, per quanto diversi fra loro, affondano le loro radici nel medesimo terreno. Il complesso è un divoratore d’energie in cui tutte le migliori qualità e intenzioni si dissolvono di fronte ad esso. Il complesso può manifestarsi durante l’infanzia e scomparire in seguito nella vita adulta. Può succedere che il complesso riguardi un solo settore della vita dell’individuo, ma può anche avere conseguenze così importanti da modificare l’intera esistenza di chi ne soffre con effetti paralizzanti in cui l’individuo è incapace di agire come vorrebbe e in cui ogni comportamento è sintomo del complesso stesso. La psicoanalisi ha avuto il gran merito di evidenziare la fondamentale importanza dei primi anni di vita per l’evoluzione della personalità futura dell’individuo ed è proprio la situazione familiare che sovente serve da modello al bambino per la sua vita futura. Il bambino, infatti, costruisce i rapporti col mondo sulla base dell’esempio relazionale vissuto con i propri genitori come figure primarie sia del maschile sia del femminile. I complessi dell’infanzia se non vengono superati da un atteggiamento adeguato e appropriato da parte delle figure genitoriali, in soccorso dei propri figli, possono trasformarsi negli anni successivi in pesanti ostacoli insuperabili. Spesso i complessi nascono da una convinzione, da un’idea o una paura.
Ricordo una paziente che aveva deciso di abbandonare la casa genitoriale soprattutto per sfuggire al padre, ma per ritrovarsi in una relazione con un uomo che aveva, a sua volta, problemi con il bere. Lei sosteneva che si trovava a proprio agio soltanto con persone che bevevano, mentre gli altri uomini li sentiva ipocriti come se si rifugiassero dietro ad una maschera per non svelare la loro vera identità. Sembrava che Carla avesse bisogno di uomini che le potessero riproporre delle esperienze negative. Molti di noi hanno potuto osservare come, più spesso di quanto si creda, ci sono persone che continuano una relazione, anche se sono consapevoli che si tratta della persona sbagliata e così continuano a ripetere gli stessi errori e stili di vita per quanto non servano a nulla. Certamente la paura dell’ignoto, spesso, mette le persone in condizione di ripetere una dolorosa esperienza piuttosto che affrontare una circostanza sconosciuta proprio perché l’esperienza conosciuta presenta il vantaggio che si sa cosa aspettarsi e quale comportamento assumere. Forse una spiegazione più esauriente andrebbe ricercata in quelle esperienze infantili che ci hanno imprigionato nella trappola della ripetizione. Secondo la psicoanalisi noi diventiamo quello che siamo grazie ad un processo graduale in cui il bambino passa dall’“Es”, in cui egli vive in base alla forza inconscia che dà origine agli istinti umani, all’“Io“ in cui egli potrà acquisire coscienza di sé distinguendosi dalla figura materna. Inoltre, potrà cominciare ad identificare la sua sessualità maschile o femminile e sviluppare quella condizione psichica chiamata “Super-Io” in cui egli apprenderà, attraverso un sistema di regole, le cose che si possono fare da quelle che non è bene fare. L’Io si trova nella difficile condizione di mediare tra gli impulsi talvolta immorali dell’Es e il Super-Io il cui compito è quello di giudicare e moralizzare. L’Io sembrerebbe avere il compito di aiutare il bambino a diventare adulto e a comprendere il senso dell’esistenza affrontando le difficoltà invece di sfuggirle. La parola “crescita” vuole indicare proprio la capacità dell’individuo di superare i momenti di crisi e nel riconoscere che essi ci possono insegnare qualcosa che ci consente di passare a fasi successive. Chi cade nella rete della ripetizione, rimane prigioniero dei soliti schemi antichi e improduttivi dell’infanzia che bloccano la crescita anziché favorirla. La crescita ci chiede di adeguarci a nuovi modelli, di inventarci in modo diverso le nostre relazioni importanti e di imparare nuovi stili di vita contrariamente ai vecchi stili ripetitivi che ci vedono prigionieri di un sistema relazionale incapace di dare nuove risposte, di affrontare le difficoltà e cercare nuove soluzioni esistenziali. Si diventa così schiavi di un complesso che blocca l’evoluzione della personalità dell’individuo, impedendogli di aprirsi al mondo e di crearsi altre possibilità di vita e costringendolo a chiudersi di fronte alle novità. Chi è vittima di un complesso è come se fosse prigioniero di forze oscure che lo spingono a comportarsi secondo schemi di cui egli stesso ignora le cause, nell’incapacità di trovare altre vie d’uscita se non quelle di ripetere gli stessi moduli di comportamento che gli potranno solo procurare una costante insoddisfazione. In questo caso l’Io dell’individuo si manifesta in tutta la sua debolezza, incapace di mediare e di indirizzare le energie dell’inconscio verso obiettivi diversi che possano favorire la sua crescita.