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L'ALCHIMIA DEL PRESEPE INTERIORE
     a cura di Corrado Aguggini
 
L'ALCHIMIA DEL PRESEPE INTERIORE


“Occorrono dei riti.
Che cos’è un rito ?
E’ ciò che fa che un giorno sia differente dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore”

(Antoine de Saint-Exupéry)


Se è ancora valida l’antica suddivisione degli esseri umani in (i) terreni, (ii) psichici e (iii) spirituali, orbene, per i primi due – e a volte ahimè anche per i terzi – non è difficile considerare i testi sacri spesso come un’assurda inutilità per le incombenze pratiche della vita. E il Vangelo di Gesù non fa eccezione a questa possibile critica; frequentemente il Vangelo è un vestito stretto e scomodo, freddo in inverno e caldo e appiccicoso in estate, e tutte le volte che proviamo a indossarlo notiamo senza troppi ritardi la nostra inadeguatezza. Il Vangelo – per certi aspetti – come molti testi sacri, costituisce un insieme di assurdità, come assurda, alla vista di un non credente, o di un credente un po’ superficiale, è la crocifissione, e folli possono sembrare certe fuoriuscite di Gesù sulle priorità da dare alle cose della vita. Tuttavia, se assurdo non fosse, non sarebbe Vangelo, non sarebbe testo sacro, perché si sa, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri … Ciò che è assurdo ci serve, come ci serve sapere che esiste un vangelo pieno di belle cose anche se a volte un po’ difficili da accettare o da realizzare; l’archetipo del Matto, XXII Carta dei Tarocchi, che volta le spalle al mondo, è fondamentale alla nostra esistenza; se non esistesse il Matto o la XII Casa, ne andrebbe della nostra stessa sanità, vivremmo tutti perfettamente allineati e cronicizzati, e probabilmente ci estingueremmo in breve, perché la follia è l’humus della vita sana, come lo è la melma umida per il loto: “la pietra che gli edificatori hanno rifiutato, è poi divenuta pietra angolare.”
Nel Vangelo, il figlio di Dio nasce fuori dalla città degli uomini, lontano dalle sue beghe e dispute, in una grotta-caverna non alterata da intervento umano, punto in cui il cielo e la terra si toccano: un non-spazio. Gesù nasce al solstizio d’inverno, nel momento più profondo della notte, al Fondo Cielo dello zodiaco, quando termine e inizio coincidono: un non-tempo. Nasce da una Vergine, che non conobbe uomo: un non-senso. Nel prosieguo della sua vita, Gesù trasformerà in luce la coscienza di molti uomini e donne, ma diversi fra questi, anche fra i più intimi, lo tradiranno, lo rinnegheranno: una non-relazione. Gesù, nonostante abbia parlato di Dio come Abbà (lett. Papà), questo Abbà non gli risparmia la croce e gli fa anche pronunciare quelle parole … Dio mio perché mi hai abbandonato ? (Mc. 15,34): un non-amore. Gesù morirà in croce, ma riuscirà a risorgere con le medesime piaghe nelle sue mani e nei suoi piedi: un uomo-non uomo, un dio-non dio, un Uomo-Dio. E nonostante la titubanza dei suoi amici che lo avevano abbandonato, lui da risorto li riavvicina con fare amorevole e li istruisce sul suo vissuto. E così via, potremmo citare altri numerosi passi, in cui abbiamo chiara la spesso inaccettabile natura assurda e “Totalmente altra” del Vangelo, così assurdo, da essere così umano e divino al contempo. Perché l’essere umano è assurdo. E Dio altrettanto, anche se spesso con motivazioni differenti.
Da un punto di vista liturgico, il Natale rappresenta un inizio di un’apoteosi che simbolicamente si manifesterà e si concluderà nella Pentecoste, passando per la Pasqua. Si tratta di una epifania trinitaria che - nel nostro emisfero, che è quello di Gesù - ha un inizio nell’oscurità e nel freddo dell’inverno - sotto il segno di Marte e Saturno e del Capricorno - per giungere alla sua gloria e al suo massimo di luce e calore quando fratello Sole entra nel segno del Cancro e si congiunge simbolicamente a sorella Luna.
Per il vero credente, per il vero homo religiosus, Natale, Pasqua e Pentecoste sono un unicum, un simbolo sempre e contemporaneamente presente nella sua vita di tutti i giorni, come l’Alfa e l’Omega.
Il Natale è un simbolo ricco di altri simboli. “Simbolo” è un termine che deriva dal greco synballein, che significa “mettere insieme”, “unire” aspetti che si credevano separati. Il simbolo è sempre ermetico, permeato di capacità sintetiche e di densità comunicative, ed è spesso per sua natura religiosus, affinché appunto religa, cioè colleghi i due livelli di realtà, quello umano e quello divino, quello esterno con quello interno, quello luminoso con quello tenebroso, quello fisico con quello metafisico, quello terrestre con quello celeste. Opposto del “simbolo” è il “diavolo”, diaballein, ciò che separa.

Considerata con l’occhio dell’anima, la nostra esistenza di oggi ci appare a volte fredda, arida, meccanica, inutilmente difficile e lontana da una concezione della vita che vorremmo tutti forse più profonda, più calda e più autentica; e ce ne accorgiamo specialmente all’avvicinarsi dei grandi momenti collettivi o delle grandi feste civile e religiose, prive sempre più di quelle antiche e penetranti intuizioni dei rapporti tra l’uomo e l’universo. In questa nostra fase di decadenza che ricorda un po’ la Roma del III sec. d.C., il nostro tempo – così disordinatamente efficiente - stenta ad essere tempo sacro, è tempo profano, profanato da vacue ritualità che vorrebbero l’uomo ingranaggio di sistema e di sottosistemi, più che figlio del Dio vivente. Tuttavia forse nessuna ricorrenza, nessuna ritualità collettiva è in grado di coinvolgerci tutti come il Natale, e ciò nonostante i tentativi dell’attuale consumocrazia ha il potere di annacquare il profondo significato simbolico, psicologico, affettivo e spirituale di una festa che va lentamente estendendo il suo misterioso fascino a tutti gli angoli della terra.
In omaggio proprio a questo mistero che avvolge il Santo Natale e che ci avvolge tutti in un’atmosfera di attesa, vorrei dedicare … più che un noioso e arido saggio di liturgia comparata sui culti solari … semmai un insieme di spunti simbolici – di stelline di luce, direi … - che ci aiutino a non perdere mai di vista questo spazio sacro della trascendenza che osiamo chiamare Natale.

***
ADVENTUS DOMINI …

“Ci fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo suo. Egli non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce … “ Vangelo di Giovanni: 1, 6-8.

Adventus, nella Roma precristiana, significava l’ingresso, semel in anno, della divinità nel tempio ad essa dedicato. L’Adventus Domini cristiano, o più semplicemente Avvento romano, è quel periodo dell’anno liturgico – conosciuto da tutti e soprattutto dai nostri bambini per il noto calendario - posto all’inizio del medesimo, che ci dovrebbe simbolicamente preparare alla nascita e venuta di Gesù. E’ un periodo di attesa di quattro settimane che precede la santa notte del 24 dicembre.
Ma prima di prestare attenzione al significato dell’Avvento natalizio in senso stretto, vorrei giustificare il summenzionato riferimento a Giovanni Battista, che a mio modo rappresenta l’Avvento in senso ampio, l’Avvento dei larghi orizzonti …

Il Battista – festeggiato il 24 giugno sotto il segno del Cancro - è il vero apri-pista del Cristo, è colui che prepara, come un primo Avvento vivente, la venuta di “colui che viene dopo di me [che] è superiore a me, perché era prima di me”.
Il Battista dunque come archetipo del segno del Cancro, che sa accogliere, che sa preparare il grande focolare domestico di madre terra, che a sua volta accoglierà il Cristo; il Battista come luminare inferiore; come la Luna che ha il suo domicilio primario in Cancro; il Battista-Luna e il Cristo-Sole.
Nel cristianesimo delle origini, le feste solstiziali del dio Giano col tempo sono diventate quelle dei due San Giovanni, che si celebrano sempre alle medesime epoche, e cioè in prossimità dei solstizi di inverno ed estate. San Giovanni l’Apostolo, il più amato da Gesù, si celebra a dicembre, il 27; San Giovanni Battista, cugino di Gesù, si celebra appunto a giugno, il 24. Si dice infatti: “Bisogna che Egli cresca e io diminuisca” in Giov. 3,30; e ciò nel senso della presenza del Sole che a dicembre, alla nascita di Gesù, è al minimo, ma l’astro solare è pronto per l’ascesa massima che toccherà il picco a giugno, alla nascita di Giovanni Battista, quando inizierà poi il Sole a decrescere, e le giornate inizieranno a perdere lentamente luce giorno dopo giorno. Non a caso nell’età di Gesù e Giovanni Battista ci sono solo sei mesi di differenza, come ricorda anche Luca agli inizi del suo Vangelo (cfr. Lc. 1,36). Per quanto poi la stagione dell’estate sia in genere considerata gioiosa e l’inverno una stagione triste, e ciò per il fatto stesso che la prima rappresenta in certo modo il trionfo della luce e il secondo quello dell’oscurità, i due solstizi corrispondenti hanno nondimeno, in realtà, un carattere esattamente opposto. Infatti, ciò che ha raggiunto il suo massimo, può ormai solo decrescere, e ciò che è giunto al suo minimo può invece solo cominciare a crescere; ed è per questo che il solstizio d’estate (apoteosi del Sole) segna l’inizio della metà discendente dell’anno, mentre il solstizio d’inverno (esilio del Sole) segna, all’opposto, quello della sua metà ascendente. Di conseguenza, nello zodiaco, il segno del Cancro (giugno) corrisponde al solstizio d’estate, a San Giovanni Battista, e alla porta degli uomini (cioè al Pitri-Yana indù: cfr. Matteo 11,11 “fra i nati di donna, non è sorto nessuno di più grande di Giovanni Battista”), mentre il segno del Capricorno (dicembre) corrisponde al solstizio d’inverno, a Cristo e a San Giovanni Evangelista (l’Apostolo prediletto da Gesù, che non lo abbandona alla solitudine della croce), alla porta degli déi (e cioè al Deva-Yana indù). Sul perché Cristo e San Giovanni Battista siano invece separati da un asse perfetto di sei mesi, ciò è dato dal fatto che, come ricorda Matteo 11,10 “Ecco, io mando innanzi a te (Cristo) il mio nunzio (Giovanni Battista), affinché prepari la via dinanzi a te (Cristo)”. Il Battista è dunque colui che prepara il terreno, lo spazio sacro (a giugno) all’ascesa di Cristo (di dicembre) ed è lo spartiacque fra il passato, rappresentato dai profeti imperfetti e dalla legge mosaica, nonché dalla stagione del Sole discendente, cioè l’estate che sta alle spalle, e il futuro dell’ascesa del Sole, che in inverno è, per dirla con Aristotele, al minimo dell’atto, ma al massimo della potenza. In un certo senso, la metà ascendente del ciclo annuale è il periodo allegro (inverno), cioè benefico e favorevole (più ricco di feste rispetto agli altri periodi dell’anno, anche per festeggiare quello nuovo), e la sua metà discendente è quello triste (estate), cioè malefico e sfavorevole; e lo stesso carattere appartiene naturalmente alla porta solstiziale che apre ciascuno dei due periodi nei quali l’anno risulta diviso dal senso del cammino del Sole.
Giovanni Battista è dunque legato al segno del Cancro, segno d’acqua (“io battezzo nell’acqua …”, Giov. 1,26), segno di accoglienza e di predisposizione, segno femminile, lunare, materno (“fra i nati di donna …”) legato al focolare domestico, di una domus, tuttavia, vibrante a un’ottava superiore, in cui la consapevolezza della propria razza aspira a méte “Totalmente Altro”: …”diede il potere di diventare figli di Dio; i quali non sono nati dal sangue, né dal volere di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio” (Giov. 1,12). Rileva notare, tuttavia, che l’Archetipo-Avvento-Battista è un passaggio necessario per avere accesso all’Archetipo-Cristo-Verità che rende liberi: “In verità, in verità vi dico: chi non nasce per acqua e Spirito non può entrare nel Regno di Dio …” (Giov. 3,5); la nascita per acqua è la nascita che hanno tutti gli esseri umani (cfr. la cd. “rottura delle acque” in ogni donna prossima al parto), ed è la condizione necessaria, ma non sufficiente, per avere accesso al Regno, che avviene per nascita nello Spirito, secondo il fuoco (cfr. Atti degli Apostoli, 2: 2-4). Quindi, notare bene, l’acqua-Giovanni Battista, come la nascita in un corpo umano, è premessa necessaria, passaggio obbligato – in tal senso, vero Avvento di preparazione – per una rinascita nello Spirito-Cristo; lo stesso simbolismo astrologico pone sempre l’elemento acqua immediatamente precedente all’elemento fuoco: Pesci-Ariete; Cancro-Leone; Scorpione-Sagittario, e da notare come Giovanni Battista sia ricordato nel primo segno di acqua dello zodiaco (Cancro) e quanto invece l’Avvento romano, in senso stretto, cada sempre sotto il segno del Sagittario, ultimo segno di fuoco dello zodiaco, co-significante della IX Casa, Casa della fede e del combattimento spirituale, sede di Giove, Marte e Nettuno.

E’ proprio quest’ultimo Avvento, inteso in senso stretto, che anzitutto emana il profumo del Natale, Christmas is in the air … L’Avvento è il tempo dell’arrivo del Signore nel tempo del nostro cuore, e si dipana in quattro settimane di preparazione, di attesa, di luci …
Il quattro è un numero di completezza, è un numero assiale, archetipo di totalità: i quattro elementi, le quattro stagioni, i quattro punti cardinali, i quattro regni viventi, i lati del quadrato, i quattro segni zodiacali che si delineano in ogni quadratura astrologica rimandando a un nuovo inizio, i quattro Vangeli, le quattro nobili verità, la struttura quaternaria dell’essere umano (rettiliana, limbica, razionale, spirituale), la cifra dell’universo materiale, le quattro settimane che compongono un ciclo lunare, e non da ultimo, in ottica giovannea, la Casa astrologica del segno del Cancro è, ça va sans dire, la quarta Casa dello zodiaco, etc.
La tradizione popolare traduce il simbolo del quattro con la corona natalizia circondata da quattro candele, che bruciano una a una quella perfezione e “pienezza del tempo”, di cui parla San Paolo nella sua lettera ai Galati, nel capitolo sull’adozione divina.
L’archetipo del quattro – in un’ottica di astro-psicologia umanistica e poi transpersonale – rappresenta anche le tappe che ciascuna anima deve percorrere nel suo cammino evolutivo: integrazione a livello fisico-materiale, emotivo-affettivo, mentale-razionale e animico-spirituale. Ma il quattro è connesso anche al sacro tetragramma, e cioè a quel Yod-He-Wav-He che nel mondo ebraico corrisponde al più sacro nome di Dio e al Suo modo di manifestarsi nel mondo, dove, nello specifico:
• Yod rappresenta la potenzialità originaria e l’impulso iniziale che dà principio a ogni realtà.
• He rappresenta la fase di maturazione grazie alla quale l’idea nata in Yod prende forma.
• Wav ci dice che l’idea astratta (Yod), dopo essersi sviluppata grazie alla matrice He, è pronta per essere comunicata, diffusa e condivisa; come in agricoltura, il seme, dopo che ha germinato (Yod) e si è sviluppato (He), raggiunge la maturità e fruttifica, condividendo i risultati del suo sforzo.
• He, in questo caso, ci dice che si è giunti a una nuova successiva maturazione, ed è il momento in cui la raggiunta realizzazione venga rimessa in discussione. In ambito agricolo, questa fase corrisponde al momento in cui il frutto, giunto a completa maturazione, cade al suolo e si decompone per poter liberare i semi che daranno inizio a un nuovo ciclo vitale.
El duende … che contorna i movimenti del sacro tetragramma è il medesimo che allinea le quattro ere (Yuga) secondo la tradizione indù: Sathyayuga, età dell’oro; Tretayuga, età dell’argento; Dvaparayuga, età del bronzo; Kaliyuga, attuale età del ferro, di decadenza e corruzione morale. Tutte insieme, queste ere cosmiche formano un manvantara o un mahayuga.

Ma il numero quattro conosce anche altre associazioni simboliche importanti. Esso è legato al concetto di fermata, sosta, prima di una successiva ripresa; si pensi alla cd. “quarantena”, o ancora alla forma geometrica del quadrato, che dà l’idea di staticità, stagnazione, solidificazione, tutti concetti che ben si adattano a un periodo di preparazione come l’Avvento natalizio. Esso è legato anche a Hesed, la quarta Sephira dell’Albero della Cabbalà, oltre ad altri infiniti significati, che esulano tuttavia dalla semplicità della presente trattazione.

***

DIES NATALIS SOLIS INVICTI …

“Per viscera misericordiae Dei nostri, in quibus visitavit nos oriens ex alto; illuminare his qui in tenebris et in umbra mortis sedent, ad dirigendos pedes nostros in viam pacis ” Vangelo di Luca: 1, 78-79
Diversi popoli antichi celebravano ogni anno la ri-nascita simbolica del Sole, che al solstizio d’inverno del 21 dicembre sembra voler fermare la sua fuga apparente verso l’orizzonte infinito e, nel momento in cui la notte è più lunga e il giorno è più breve e buio, comincia a ritornare verso l’alto per riportare luce, calore e vita a tutto il pianeta e ai suoi abitanti: … “verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge” …
Nel bacino del nostro Mediterraneo si ricordano i culti solari di Apollo in Grecia, Hadad in Siria, Ra in Egitto, Mitra in Persia. A Roma il culto del Sole fu introdotto fra il secondo e il terzo secolo d.C., per particolare merito di Eliogabalo ed Aureliano, che fece costruire nel 274 d.C., nell’appena conquistata città siriana di Palmira, un tempio dedicato al Sol Invictus, consacrandogli come giorno il 25 dicembre. Questo giorno divenne così il Dies natalis Solis invicti, cioè il giorno del Sole invincibile, in quanto perpetuo trionfatore della battaglia annuale della luce contro le tenebre: dal 25 dicembre, infatti, le giornate lentamente iniziano ad allungarsi, giungendo poi a una parità fra luce e tenebre durante l’equinozio pasquale di primavera, prima della vittoria finale della luce con l’arrivo dell’estate e della Pentecoste.
Con papa Leone Magno nel V sec. si scelse quella data per celebrare la nascita di Cristo, Sole spirituale dell’umanità, e Sole spirituale di ogni essere che accetta di vivere il Cristo interiore come archetipo del proprio Sé superiore, scintilla divina sempre presente in noi, e che anima la nostra complessa struttura bio-psico-spirituale: il Cristo come Brahman di me che sono Atman; il Cristo come modello perfetto e come mio faro e mia luce per la notte oscura della mia anima; il Cristo come Sole del mio Sole; il Cristo come Sole e io come Suo raggio, stessa sostanza, stessa matrice, stessa origine, stessa mèta; il Cristo come Sole attorno cui ruotano per “santa attrazione” i pianeti, forze di un sé che aspira al Sé.
Col tempo la ricorrenza cristiana sostituì quella pagana, spostandone simbolicamente il significato dall’esterno verso l’interno, dalla dimensione fisica ed esclusivamente terrena a quella psico-spirituale: come il Sole è il cuore vivo e pulsante di tutto il sistema solare, e dà luce e calore alla terra e agli altri pianeti, altrettanto il Cristo è il Sole spirituale, è luce, amore e vita per ogni uomo che si riconosce Cristo in potenza e che sa trasformare il proprio cuore da organo … in centro assiale, e che riconosce in sé una scintilla di luce non terrena che perennemente anima e vivifica il suo IO.

***
VIGILATE ERGO !

“L’amore è la pienezza della legge … è tempo ormai di svegliarvi dal sonno …”
Lettera ai Romani, 13: 10,11

Eccettuati i casi in cui il sonno si presta per accogliere messaggi onirici rilevanti, di norma molte tradizioni religiose e spirituali condannano il sonno come momento di torpore, obnubilamento, dimenticanza, assenza di sé, il sonno come stato d’essere di chi si lascia vivere e non vive la vita secondo verticalità.
Raramente ciò che fuori dall’ordinario è stato associato a qualcosa di positivo, e la pesante influenza “storica” di Saturno-Padre-Legge-Obbedienza sulla coscienza collettiva ha portato fin troppo spesso a condannare aspetti della vita non necessariamente in toto negativi, vedi il sonno (“Chi dorme non piglia pesci”, il riso (“Il riso abbonda sulla bocca degli stupidi”), la gaiezza e leggerezza dell’essere (il leggero è spesso un superficiale; il giulivo è associato alla stupidità delle oche), etc. Nello specifico, il sonno è spesso associato alla morte; si pensi all’etimo greco della parola cimitero “koimeterion” che significa “luogo dove si dorme”, donde, in senso lato, forse anche l’etimo italiano “accomiatarsi”, congedarsi, partire. Nella tradizione greca sonno Ipnos e morte Thanatos sono fratelli, come Nettuno e Plutone. Per contro, la parola latina per “resuscitare” è surgere, che significa “alzarsi”, quasi come alzarsi dal letto di sonno. Nella tradizione orientale, il Buddha è il “risvegliato”. Per la psicoanalisi freudiana, il sonno ricrea le stesse condizioni della nostra esistenza prenatale, fatta di oscurità, calore e calma, condizioni che facilitano il corpo a spesso ritrovare una posizione fetale da stadio embrionale; nella sua “Introduzione alla psicanalisi”, Freud attentamente riporta “che anche in età adulta noi non apparteniamo al mondo che per i due terzi della nostra individualità e che per un terzo non siamo ancora nati. Ogni risveglio, al mattino, è per noi, in queste condizioni, una nuova nascita”.
Nella psicologia transpersonale il sonno viene spesso associato alle nostre resistenze al “sublime”, sublime che spinge per manifestarsi dentro di noi, ma che viene annebbiato dalle nostre fissazioni, dai nostri cliché, dai nostri copioni e ruoli che ci cristallizzano in schematismi ai quali siamo fin troppo legati, e che ci fanno condurre una vita sonnacchiosa, contornata dalle nostre piccole certezze, dal nostro acquitrino emotivo che difende se stesso col dubbio, l’indifferenza, la banalizzazione, il cinismo, il pessimismo pur di evitare di crescere e di svegliarci a una nuova luce; si tratta di difese molto più potenti di quello che ci immaginiamo, in grado di tirarci giù come sabbie mobili, apparentemente dormienti, di sonno foriere. All’origine di questo tipo di sonno possiamo trovare complessi di inferiorità, di umiltà eccessiva e male intesa (che rasenta l’umiliazione di se stessi), di autosvalutazione, e che senza difficoltà ci eviteranno di accedere a piani di coscienza superiori e strettamente spirituali (come ci rammenta la “Piramide” di Maslow), perché non ce ne sentiamo degni ab origine: del resto, non può esserci santità senza sanità … prima siamo uomini, poi sacerdoti, prima godiamo del mondo, poi possiamo pensare di trascenderlo, prima il sé, poi il Sé, prima conosciamo le case astrologiche sotto l’orizzonte, poi possiamo pensare di andare oltre, è banale ma è così, e se non vi è una autentica sanità psicologica, emotiva, cognitiva e affettiva, non ci si dovrebbe spingere oltre … Siccome tuttavia non possiamo pensare di condurre una vita sopprimendo e soffocando il sentimento del “Totalmente Altro” e del sublime dentro di noi, siamo tutti costretti a mettere mano, giorno dopo giorno, al nostro terreno interiore, senza addormentarci o fermarci, come ricorda il maestro Gesù: “Chiunque mette mano all’aratro e si volta indietro, non è adatto per il Regno di Dio” (Lc 9,62). Se invece – noi, che siamo figli del Sole - ci addormentiamo su noi stessi, non vigiliamo a sufficienza, dimentichiamo il vero lavoro di ascesa/discesa/ascesa dalla Scala di Giacobbe, siamo condannati a incontrare i nostri demoni dell’insoddisfazione esistenziale, della noia, del vuoto di senso, della banalità del vivere, dello “Schifamondo” dannunziano, e che ci porteranno a un’inedia esistenziale contornata da un frettoloso iperattivismo compensatorio, dal “lavorismo” e carrierismo ormai marcio, putrido, trito e ritrito, da una mancanza di sensibilità, di incanto, di meraviglia, di contemplazione, che ci porteranno a sostituire il fare all’essere, per la gioia dell’attuale (e perenne) sistema schiavista dai guanti di velluto, che ci domina grazie alla nostra inconsapevolezza, al nostro sonno e alla nostra mancanza di vigilanza.

Vigilanza che è dunque attenzione per evitare una vita infartata, una sclerosi del cuore e del Sacro Graal interiore posto nel terzo occhio, a gloria dei nostri vari egoismi che fanno il mondo immondo, le monde démon … Avvento dunque come vigilanza per preparare la via al Signore, affinché ciascuno di noi sia come il Battista, per permettere alla luce del Sé di filtrare attraverso il nostro occhio, occhio di un corpo di luce, perché la materia è luce, coagulo energetico di suono-luce, frammento di Sole: “La lucerna del tuo corpo è il tuo occhio […] Se tutto il tuo corpo è illuminato, senz’avere alcuna parte oscura, sarà tutto nella luce, come quando la lucerna ti investe con i suoi raggi” (Lc 11, 34-36).

Il tempo d’Avvento è dunque associato alla vigilanza, all’essere svegli, al prepararsi ad alzarsi, perché una nuova luce è in arrivo e più non si può dormire. Avvento come momento per ricordarci la nostra divina matrix; Avvento come momento per ricordarci che il culmine della già citata “Piramide” di Maslow è il gradino dei “Bisogni Superiori”; Avvento come momento per comprendere la precarietà e parzialità della nostra dimensione esclusivamente psicologica e materiale – quantomeno a questi nostri attuali livelli di potere spirituale; Avvento come memento mortis perché momento buio, buissimo, appena preceduto dalle istanze di morte e trasformazione dello Scorpione; Avvento come evento strettamente sagittariano, come co-significante della Nona casa, come un nascituro che gioca sulle gambe di un Sagittario pieno del suo innato ottimismo, incrollabile fede e lungimirante speranza.
Ma l’Avvento, a mio modo di vedere, dovrebbe rappresentare anche un forte richiamo al valore simbolico dell’archetipo Maria, archetipo reale, storico ma anche metastorico; quella Maria che, facendo spazio in se stessa, creando quel vuoto della grotta interiore, può accogliere una luce che la renderà “piena di Grazia”.
Tutta la liturgia mariana è un percorso che parte dalla immacolata concezione di Maria sotto il segno del Sagittario (8 dicembre), passa per la sua nascita, guarda caso, sotto il segno della Vergine (8 settembre), coronando la festa della donna sotto il segno dei Pesci (8 marzo) e il mese mariano, che è maggio, sotto il segno di Toro e Gemelli; da notare quanto si ripeta nell’archetipo Maria l’influenza di Giove (Sagittario, Pesci, Toro) e Mercurio (Vergine, Gemelli): Giove come madre e come nutrimento al Bambin Gesù (II Casa), Giove come affidamento e fede nella volontà di Dio (IX Casa), Giove come alta spiritualità (XII).
Nel simbolismo cristiano delle origini, il femminile Maria-Giove ha decisamente un ruolo più rilevante del maschile Giuseppe-Saturno, e non a caso Giuseppe - che secondo la tradizione popolare era “anziano” – ad un certo punto scompare definitivamente dall’orizzonte dei personaggi evangelici, lasciando tutta la scena a Maria-Giove … come Saturno, del resto, non ha posizioni dominanti in XII Casa, mentre Giove sì, altrettanto Giuseppe “si fa da parte” avendo ormai ampiamente svolto il suo ruolo protettivo saturnino perché solo uno stato d’animo ricettivo e femminile può andare oltre: “Presso la croce di Gesù stavano sua madre Maria […] Gesù, dunque vedendo sua madre e lì presente il discepolo che egli amava [Giovanni-GIOVE ?], disse a sua madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. E da quel momento il discepolo la prese con sé” (Giov. 19: 25-27 e cfr. anche Giov. 21: 20-24).
Maria-Giove dunque come modello per l’Avvento, Maria come archetipo di un femminile che ci viene riportato in modo originale nel Vangelo apocrifo di Tommaso: “Quando farete dei due uno, e quando farete l’interno come l’esterno e l’esterno come l’interno, e il sopra come il sotto, e quando farete di uomo e di donna una cosa sola, così che l’uomo non sia uomo e la donna non sia donna […] allora entrerete nel Regno” (Tomm. 22).

Dunque da un punto di vista teologico-liturgico, l’Avvento rappresenta l’invito a vigilare per essere come Maria, per riacquistare la memoria della nostra origine divina, di quel destino eterno iscritto in ciascuno di noi, per accendere in noi il fuoco sagittariano dell’ascesa, che presuppone un lavoro precedente di rettificazione e purificazione per una successiva identificazione nella parte più alta della nostra personalità. Non si tratta tuttavia di un processo tutto sdolcinato, mite e totalmente passivo; l’accettazione “avventuale” avviene sotto due segni – Scorpione (Acqua) e soprattutto Sagittario (Fuoco) - che presuppongono capacità di morire a se stessi e al vecchio sé ma di combattere per il nuovo sé e la nuova luce in arrivo, segni astrologici che includono entrambi un forte Marte, oltre che nello specifico un intenso Plutone e un deciso Giove: “Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e quanto desidererei che fosse già acceso ! Devo ricevere un battesimo e quanto mi sento angustiato, finché non sia compiuto” (Lc, 12, 49 e segg.).

***

PELLEGRINI, VIANDANTI, PASSEGGIATRICI, CORRIDORI, STORPI, PARALITICI E FINTI INVALIDI …
… MA SOPRATTUTTO PASTORI E UOMINI GIUSTI …

… i pastori si dicevano a vicenda: “andiamo dunque fino a Betlemme e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere” Lc, 2,15

Simeone […] era uomo giusto e pio […] andò dunque al Tempio mosso dallo Spirito […] Lc, 2, 25 e segg.

Concordo con chi ritiene che il Natale – nella sua accezione simbolica, mitologica e metastorica, oltre che storica – può essere visto come un grande palcoscenico, in cui personaggi e situazioni si combinano fra loro per strutturarsi in elementi di uno specifico psicodramma spirituale. Tutti noi, del resto, nel nostro peregrinare verso, al contempo, possiamo facilmente avere il ruolo di Maria, di Giuseppe, dei pastori, di Simeone, di Erode … e volendo allargare l’orizzonte evangelico, in tutti noi risiede un Pietro che sguaina indebitamente la spada o che all’occorrenza rinnega Gesù … Il mito funziona anche così, come la storia del resto, facile a giudicarsi quando lontana si staglia … Ma la cosa che sicuramente accomuna tutti i personaggi … in cerca d’autore … è che sono tutti in cammino, tutti cercano, tutti si muovono, e si muovono perché mancano di qualcosa, la loro anima non è soddisfatta, e in un certo senso, la loro anima è ancora malata, malata, ben si intenda, non di kantiano male radicale, ma di ignoranza spirituale … malata di mancanza.
L’essere in cammino è dunque condizione fondamentale per poter fare parte del palcoscenico; se poi il ruolo che abbiamo è di primo livello o è quello del cattivo di turno, questo al momento non ha importanza; ciò che ha invece importanza è che siamo saliti sullo stage, sul palco degli attori, perché sentiamo che dobbiamo avere un ruolo, abbiamo abbandonato lo stato di spettatore della vita, ci siamo messi alla ricerca, ci siamo dati una mossa, ci siamo svegliati, abbiamo fatto il primo passo, abbiamo preso parte, forse più o meno consapevolmente sapendo che l’esser tiepidi non porta frutto, né nella vita comune e mondana, né in quella più strettamente spirituale: “ Conosco le tue opere; so che tu non sei né freddo, né caldo […] ma poiché sei tiepido […] io sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap. 3,15-16).
Dunque abbiamo dato inizio al nostro inizio, come i Re Magi o Simeone, come gli apostoli o i pastori, perché abbiamo capito che era giunto il momento per noi per spostare la coscienza dal livello dell’io a quello del Sé, alla ricerca del Graal interiore, della grotta interiore, della notte oscura perché Lux tenebrosa necessaria per passare dallo stato di viandanti a quello di pellegrini, perché il pellegrinaggio ha una mèta ben chiara, che dà senso al nostro percorso e al nostro vivere.
Quando saremo giunti a destinazione scopriremo che avremo fatto un viaggio intorno a noi stessi, che saremo partiti da noi per giungere a noi. Fino a quando siamo in cammino, l’universo è infinito e ogni punto è periferia; ma quando siamo prossimi all’arrivo, iniziamo a comprendere che ogni punto è centro, perché Dio è un oceano infinito, il cui centro è ovunque. Ma bisogna mettersi in viaggio per capirlo.
Il vangelo ci dice che la nascita di Gesù avviene all’interno di un pellegrinaggio collettivo delle genti dell’impero, quello verso “la propria città”, per rispettare un censimento ordinato da un editto romano. Ma l’idea di pellegrinaggio ci viene data anche dall’immagine dei Re Magi, così come dalla fuga in Egitto di Maria, Giuseppe e Gesù per fuggire da Erode. Il movimento, la marcia, la fuga, lo spostamento, il cambiamento di direzione sono tutti elementi che si ripresentano, anche a vibrazioni diverse, in molteplici tradizioni religiose del mondo, per indicare l’esigenza di rinnovamento; si pensi alla fuga di Maometto (cd. Higra, o Hegira), o alla precedente fuga di Siddharta Sakhyamuni, detto poi il Buddha, dal palazzo del padre. Il Cristo stesso è pellegrino nella sua terra, consapevole di non poter essere profeta in patria, il Cristo stesso si muove in tutta Israele, e il suo calvario al Golgota è il suo ultimo pellegrinaggio.
Ma ciò che qui preme rilevare è il pellegrinare di tutti i cercatori, privi di cuscino ove posare il capo, senza sostegno, presenti a uno stato interiore che rifugge inorridito la fissità, l’immobilismo, la staticità, il blocco, la sclerotizzazione di pensieri. La vita del ricercatore è semmai dinamica, in movimento, come il Dharma (e soprattutto lo svadharma), come l’Universo stesso, come il calore che si espande e non rattrappisce incartapecorito come il freddo … dunque è un continuo pellegrinare, alternato qua e là da momenti di assestamento che possono durare anche parecchio ma che sono comunque funzionali alla ricerca; del resto, tutto ciò che è vivo si muove.
Da un punto di vista astrologico, il viaggio, soprattutto da un punto di vista psico-spirituale, è spesso associato al segno del Sagittario, IX Casa, ai cui gradi possiamo facilmente ricondurre l’Avvento come momento di preparazione e di viaggio interiore; del resto, il Sagittario è il segno più legato alla propria e personale direzione da prendere nella vita, il suo glifo infatti prevede che il centauro scocchi una freccia in una direzione ben precisa, una direzione che va verso le altre Case superiori dello zodiaco, e in ultima istanza verso la XII Casa, dove troviamo nuovamente quel Giove che abbiamo prima incontrato in II e in IX appunto. Chi più del pellegrino è “lontano” dalla propria terra ? E chi più del segno del Sagittario è familiare con il termine “lontano” ? Ma sappiamo che il concetto di “lontano” può essere facilmente riportato sull’asse interiore della nostra coscienza, senza necessariamente andare chissà dove … il pellegrinaggio è anzitutto un viaggio dentro di sé, conoscendo ed integrando lentamente ciò che apparentemente ci sembra diverso di noi in noi, con ovviamente indiscutibili vantaggi a livello collettivo.
Essere pellegrino, dunque, significa dis-identificarci da tutto ciò che ci lega esclusivamente al mondo sotto l’orizzonte delle Case I-VI, dai legami familiari eccessivi, dalle immagini sociali, dai luoghi comuni, per invece abbracciare una dimensione più profonda, più alta e verticale che ci faccia déi, come sta scritto nella Legge (cfr. Giov. 10,34). Ma per fare ciò occorre forza, coraggio, e una certa dose di incoscienza, doti, queste (Marte e Giove), ben presenti nell’archetipo pellegrino del Sagittario: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace ma la spada. Perché sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre […] chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me […] (Mt, 10, 34-39).

Il pellegrinaggio, il viaggio che dobbiamo compiere noi, che siamo personaggi viventi del vangelo dello scandalo, è dunque un andare e un tornare al luogo delle nostre origini, alla fonte della luce oscura e lontana da cui tutto nacque, alla terra Natale … E’ il viaggio di ritorno alla nostra identità più profonda, vuoti come la grotta, nudi come un bambino appena nato. Il censimento, en fin, è l’affermare “io ci sono” “Eccomi”, anzi … “ecce Homo” … è un dichiarare la propria identità, da cui partire per andare oltre, una identità comunque rinnovata da una coraggiosa salita a monte, perché la vita è più spesso viaggio che dimora.


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IL TAGLIO DEL CORDONE OMBELICALE

Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse a Gesù: “Beato il seno che ti ha portato e le mammelle che hai succhiato !”. Gesù rispose: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica !” Lc, 11, 27-28

Ho sempre considerato Gesù alquanto divertente e sarcastico, e l’episodio evangelico sopra riportato ne è secondo me una discreta testimonianza. Mi sembra di scorgere in questo dibattito una perfetta rappresentazione dell’asse astrologico IV-X Cancro-Capricorno; in questo passo raccontato da Luca, Gesù si comporta da vero Capricorno quale è, nella sua concreta asciuttezza cerebrotonica, rispondendo a una donna che incarna il principio viscerotonico femminile e lunare del segno del Cancro. Ancora una volta rileviamo quanto la vera spiritualità – la Verità che vi farà liberi – sia oltre le esigenze delle Case astrologiche poste sotto l’orizzonte I-VI.
Pur tuttavia, il mito e la storia ci raccontano che Gesù è nato come tutti, ed è stato accudito come tutti i bambini. L’evento centrale del Natale è proprio, per l’appunto, una nascita. Ma cosa ce ne facciamo noi di un evento del genere nella nostra più o meno tormentata vita ? Che uso simbolico possiamo dare alla nascita di una persona che mai abbiamo visto ? Nel nostro cammino, come viandanti che aspirano a diventare pellegrini, probabilmente la nascita di Gesù sta nei Vangeli, come la nascita in noi di una nostra consapevolezza “altra e oltre” sta nella nostra vita. Come per ogni nascita occorre un parto preceduto e contornato da un travaglio, così a livello bio-psico-spirituale occorre un travaglio (e che travaglio !) di tutta la nostra personalità per dare alla luce il germe di Luce in essa nascosto come un’occultam lapidem, una pietra filosofale che incarni il principio del Sé.
Un tale parto – come ogni parto – richiede intimità, ed è giusto che avvenga nell’oscurità della notte, al Fondo Cielo della coscienza, punto oscuro e buio, da cui la luce non può che crescere. Questo travaglio e questo parto non può avvenire che nel silenzio e nella solitudine, lontano dalla mischia, dall’agone delle dispute umane e delle frettolosità esistenziali, dove tutti sono occupati, come l’albergo (Casa VIII) che rifiuta Maria e Giuseppe, perché “per loro non c’era posto” (Lc, 2,7).
Ogni crisi esistenziale è punto di morte, è un rivivere le dinamiche dell’Ottava Casa, è angoscia, è solitudine, è sentirsi né carne, né pesce, inutili al mondo e a se stessi. Ma solo se accettiamo la crisi come grande occasione di crescita e cambiamento (cosa che, invece, purtroppo non avviene a livello politico-economico collettivo, dove la tendenza è a preservare nell’immobilismo una situazione iniqua che fa comodo ai pochi a danno dei molti) possiamo rendere proficua la nostra notte oscura dell’anima, la nostra Nigredo alchemica.
Il parto di Maria, dunque, rappresenta il travaglio della nostra personalità che si fa Anima e che un giorno si farà Spirito … un unico travaglio, molti travagli, un unico parto, molti parti …

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LA GROTTA, IL VUOTO

“Contempla il mondo come vacuità, o Mogharajan, sempre restando rammemorante” – così disse il Beato Buddha. “Avendo distrutto la teoria di se stesso si giungerà a superare la morte; il dio della morte non vedrà colui che in tal modo contempli il mondo”. Sutta Nipata, 1119 Canone Buddista.

E tale parto non può che avvenire in una grotta, in una grotta-caverna, che è la grotta del nostro cuore. La grotta rappresenta simbolicamente la condizione spaziale in cui può avvenire la seconda nascita.
Concordo pienamente con quegli studiosi di religioni comparate che individuano il Vuoto (Sunyata) del Buddismo nella condizione principe per realizzare il Cristo in ciascuno di noi.
Per il Buddismo del Canone, ogni forma materiale, ogni sensazione, ogni percezione ed ogni altro contenuto della coscienza, non ha una propria natura: non si determina e non si definisce in modo autonomo, come se invece possedesse una identità ab-soluta, sciolta e indipendente dal rapporto con ogni altro-da-sé. Pensieri, parole, opere e omissioni … sono privi di natura propria. Il mondo è dunque visto come vacuità: esso, inteso come universo, così come singolo ego, è strutturato da elementi interdipendenti, dove l’interdipendenza è consentita e garantita dal fatto che gli elementi sono privi di consistenza autonoma, e quindi in tal senso sono vuoti. Tuttavia, chiariscono i buddisti, il mondo inteso come vacuità non presenta solo l’accezione esclusivamente di spazio che segnala una assenza di limiti chiusi (anatta), ma presenta anche un’accezione di tempo che connota una assenza di continuità, un vuoto di permanenza, ossia impermanenza (anicca). E nello specifico, anatta e anicca sono in riferimento anche ai contenuti della nostra coscienza, e per cui il mondo visto come vacuità indica impossibilità di esistenza separata (anatta) e impossibilità di permanenza (anicca) anche in relazione al mondo interiore dell’IO, non solo ai fenomeni del mondo esteriore. Il procedimento per dimostrare la vacuità dell’IO, della soggettività e della coscienza consiste innanzitutto nel dimostrare l’inconsistenza e l’impermanenza delle componenti della soggettività, ossia degli aggregati (i cinque skandha) che ne garantiscono la costituzione e ne permettono il funzionamento.
La materia in oggetto è lunga e complessa, e una seria trattazione esula dai presupposti e dai desiderata di questo scritto “natalizio”; tuttavia mi convinco sempre di più che quel vuoto di cui parla il buddismo non è un “a priori antitetico” alla dottrina cristiana. E' semmai quel vuoto che rende possibile la realizzazione del Cristo interiore.
Gesù non poteva che nascere in una grotta. La grotta, come la caverna, è un simbolo denso di significati. La caverna è un’allegoria dell’utero materno, divina matrix, che secondo l’antica scienza era contenitore e produttore del nuovo uomo. La caverna/grotta è centro generativo e rigenerativo che intravediamo in alchimia nel crogiolo, ove si trasforma il compost attraverso le varie fasi imposte dal fuoco dell’athanor. E’ il mondo apparente, non reale - vuoto potremmo dire in termini buddisti – da cui l’anima deve uscire, per potere, fuori dalla caverna, contemplare il mondo vero … si ricordino le parole del Sutta Nipata … “il dio della morte non vedrà colui che in tal modo contempli il mondo”. Con lo stesso termine “mondo” le scuole iniziatiche pitagoriche definivano la caverna; lo stesso sostantivo era usato dalla religione di Zoroastro e di Mitra (caverna=mondo).
L’entrata nelle viscere plutoniche della terra, nella caverna/grotta, è una discesa agli inferi, nella notte più oscura dell’anno; la stessa terra appare come aperta dalla grotta/caverna per aprirsi a sua volta alle energie del Cielo, come lo squarciarsi del Cielo quando Gesù muore sulla Croce: “… quando le tenebre si stesero su tutta la terra … essendosi scurato il sole …” (Lc. 23,44). Dunque, Gesù stesso, nel suo percorso cielo-terra-cielo, nasce in una grotta, compie il suo iter terrestre e quivi muore, e dopo questa morte, incontra nuovamente la grotta-caverna sotto forma di tomba, la apre secondo Mc 16, Mt 28, Lc 24 (Pasqua, simbolismo dell’Uovo) e risale verso il Cielo (Pentecoste e Ascensione) presso il Padre.
Ma la grotta evoca un simbolo di vacuità, di vera purezza, di terra vergine, originaria, non ancora alterata da antropizzazione alcuna. La grotta-cuore come un vaso vuoto, perché sta scritto nella Regola Aurea che Dio si può realizzare solo in una mente e in un cuore liberi e disponibili. Il vuoto della grotta è un vuoto ex ante, è uno stato che è lì da sempre, in attesa di essere riconosciuto. E’ il nunc stans di Tommaso d’Acquino. E’ il vuoto che è necessario per trovare la luce in noi; è quel vuoto che è apparentato con la Libertà figlia di Verità. La grotta non è dunque la casa costruita dall’uomo, bensì uno spazio primigenio, naturale. Solo in una personalità che è tornata terra vergine, che si è dis-identificata, che si è separata da tutte le false immagini interne ed esterne, con cui si era precedentemente identificata, che ha realizzato che tutto è vuoto, in quanto anatta e anicca, può allora determinarsi la condizione necessaria affinché possa venire alla luce la nostra identità più autentica, quella divina.
Parafrasando, in termini astrologici, il maestro buddista Zhuang-zi … “Benché la freccia del Sagittario non occupi che un piccolo spazio nel cielo, è grazie a tutto lo spazio che essa non occupa che il Sagittario può scoccare la sua freccia …” Ma è evidente: per scoccare una freccia occorre una volontà e una direzione, occorre anzitutto una nascita.

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LA NOTTE, IL BUIO, LE TENEBRE, IL SILENZIO

“Vi erano in quella regione dei pastori che pernottavano in mezzo ai campi per far la guardia notturna al proprio gregge. Un angelo del Signore apparve loro, e la gloria di Dio li avvolse di luce, sicché furono presi da un grande timore.”
Lc. 2, 8-9

In molte cosmogonie, la notte precede il giorno, come il caos precede la creazione. La notte è simbolo di gestazione, di un universo ancora increato, del non-manifestato prossimo alla manifestazione. Paragonata alle stagioni, essa è equivalente all’inverno, tempo delle notti più lunghe e in cui tutto è in germe. La notte è conseguentemente connessa a due assi simbolici: in negativo essa evoca le tenebre e la negazione della luce, un nero freddo; in positivo, essa evoca il mistero, il segreto, l’ermetico, il blu caldo ma al contempo terso, come un abbondante plaid di cashmere che ci avvolge.
Direi che la veglia notturna dei pastori, l’annuncio fatto dall’angelo di Dio e la nascita di Gesù bambino appartengano a quest’ultima categoria, in quanto si tratta pur sempre di una notte di rivelazione, di ascesa di un sole spirituale che dallo zenit raggiunge il suo nadir alla mezzanotte, al Fondo Cielo della coscienza.
A livello psicologico, la notte facilita l’apertura delle porte dell’inconscio personale e collettivo, soprattutto attraverso l’attività onirica. D’altronde, è proprio perché spinge l’uomo a confrontarsi con la propria vita interiore profonda che la notte ci scatena le angosce peggiori … spesso di notte, se siamo svegli, i nostri problemi quotidiani o esistenziali ci appaiono molto più insormontabili e di difficile soluzione. La notte pone tutti noi di fronte a noi stessi, alla densità sconvolgente della nostra vita psichica, di fronte al nostro mondo interiore.
Nella tradizione del nuovo Testamento – a testimonianza del fatto che il Vangelo è un anti-sistema tout court - è la luce che proviene dall’angelo di Dio a spaventare i pastori; e ciò come a voler dire che l’umanità, se temeva più la luce del buio, era come se si fosse fin troppo adagiata su se stessa, ed era giunto il momento di stravolgere questa melmosa abitudine e iniziare ad abituarsi a una nuova luce emergente … in fin dei conti i pastori siamo soprattutto noi, che continuiamo il nostro lavoro nonostante le avversità della notte, notte che rischierebbe di catturarci definitivamente se non ci fosse, de temps en temps, un intervento di un Sole che venga a visitarci dall’alto … Del resto, i pastori meritano quella luce proprio perché erano al lavoro, non erano a dormire, non erano a divertirsi. La luce dunque premia chi è sveglio e chi lavora, e questo lo dobbiamo intendere a livello simbolico, non solo a livello storico o mitologico: se siamo al lavoro, se non dormiamo, la luce prima o poi arriva. Del resto la nostra crescita interiore è fatta di molte notti, che si aprono su altrettante aurore; ma se non ci fosse la notte – noi che viviamo di una necessaria alternanza fino a quando non saremo nei Campi Elisi dove è eternamente giorno – come potremmo comprendere la luce ? E la notte, oltre a essere necessaria, rappresenta anche l’estrema purificazione, il ritorno all’indifferenziazione primordiale, alla dissoluzione di ogni struttura e di ogni forma, per cui non può esserci che una nuova nascita. In astrologia, chi meglio di Nettuno svolge questo ruolo di dissolvimento per una nuova nascita ? Non è poi Nettuno il pianeta del Segno dei Pesci, XII Casa, il più spirituale di tutti i segni ? E non è proprio il Segno dell’Ariete quello che segue i Pesci e che è legato a un nuovo inizio esistenziale ?
L’uomo nuovo – il pastore che successivamente afferma: “Andiamo dunque fino a Betlemme” – nasce dalla dissoluzione dell’uomo vecchio – i pastori “furono presi da un grande timore” – uomo vecchio che è comunque ormai pronto per un salto di qualità, perché ha lavorato, non si è sottratto alla fatica, ed è soprattutto presente, in silenzio, come il pastore, di notte, con le sue greggi.

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GESU’ … BAMBINO

“I vostri bambini non sono figli vostri. Sono figli e figlie della sete che la Vita ha di se stessa. Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi. E benché vivano con voi, non vi appartengono”. Khalil Gibran

“La cosa più difficile è essere semplici”. Lao-Tzu

Ho pensato che questo noto aforisma di Gibran fosse adatto anche a uno come Gesù, che in più occasioni ha mostrato una via alquanto alternativa di maternità e paternità (cfr. Mc. 3, 31-35), mettendo in discussione l’ideale stesso di famiglia (cfr. Mt. 10, 34-39 già citato), arrivando anche a rimproverare Giuseppe e Maria quando lo cercavano temendo che si fosse perso a Gerusalemme: “Perché mi cercavate ? Non sapevate che io mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre ? Ma essi non compresero quello che aveva detto …” (Lc. 2, 49-50).
Gesù quindi fu bambino, ma fu bambino fuori dall’ordinario, come tutta la sua vita. Pur tuttavia fu anche lui bambino; quel bambino che un po’ ci commuove quando ci apprestiamo a “farlo nascere” nel nostro presepe di casa, la mezzanotte della Vigilia di Natale.
I miti, le leggende e le favole che mettono in scena un bambino spesso lo presentano come un soggetto puro ma sprovveduto, opponendolo all’adulto che può essere anche corrotto. Il bambino incarna così lo stato vergine, originario, lo stato di tutto il possibile, la tela di fondo non-duale, alba e avvenire di un santo o di un criminale. Questo discorso, tuttavia, è valido solo in parte, perché comunque ogni bambino giunge sulla terra con un suo bagaglio spirituale specifico, frutto del suo karma e del suo dharma; se l’involucro può essere giovane, l’anima può al contempo essere antichissima. Ma è portatore comunque di una purezza tutta sua, perché la reincarnazione è in ogni caso un nuovo inizio, una nuova sfida, vuoi per proseguire nel cammino di identificazione, vuoi per quadrare conti prima non risolti; l’anima prima di scendere si impegna a bere alla fonte dell’oblio, pur conservando nel profondo le proprie prerogative più intime e incomunicabili, il suo DNA spirituale.
Quindi il bambino come archetipo di ciò che è fresco, ma anche antico, come spartiacque fra il Tagete ciceroniano, vecchio-ante-mezzanotte, e il futuro-post-mezzanotte.
Il bambino dunque come germoglio, come vita in potenza, come ottimismo, come speranza, come possibilità di futuro. Il bambino come qualcosa di molto piccolo, come una briciolina di divinità, come scintilla di luce accolta in una materia che è anzitutto mater, il bambino come principio spirituale che abita nell’uomo come “più piccolo del germe che si trova nel grano di miglio” (Chandogya Upanishad), o come il granellino di senape, il tesoro nascosto, la perla preziosa con cui Gesù paragona il Regno dei Cieli.

L’archetipo del bambino torna spesso nei Vangeli anche come invito a ritrovare lo stato di fiducia, ottimismo, semplicità, apertura, assenza di schematismi predefiniti, che costituiscono un serio ostacolo alla conoscenza superiore. L’archetipo del bambino si rovescia come un’immagine allo specchio in quella del saggio, per cui “chi non accoglierà il regno dei cieli come un bambino, non vi entrerà.” (Lc. 18,17).

Da un punto di vista negativo, l’archetipo del bambino ricorda la vulnerabilità. Nel Vangelo Gesù vive e rivive questa fragilità proprio alla sua nascita e durante la crocifissione, dove lui si ritrova in condizioni simili a quelle della nascita, ma decisamente opposte per (dis)valore: nudità, esposizione, abbandono. Al Golgota, Gesù torna a essere nudo come un bambino, esposto alle risa altrui, non alle carezze, abbandonato perfino da diversi apostoli; non ci sono più i pastori che vengono a rendergli omaggio, e sua madre si dispera e non gioisce più come nella grotta perché vede che chi l’ha sostituita nell’abbraccio di suo figlio è un arido legno.


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GIOVE E LA MANGIATOIA

“Io ho quel che ho donato …” G. D’Annunzio

Continuo a credere che buona parte del simbolismo cristiano del Vangelo ruoti intorno al viaggio di Giove all’interno dello zodiaco, e alle sue sedi più intime e corrispondenti (II, IX, XII Casa). Giove è il pontifex fra le istanze più terrene, crude e maschili presenti in tutta la scenografia, facenti capo a Saturno: Giuseppe, Erode, capi ebrei, dottori della legge, farisei, sadducei, occupazione militare romana, crocifissione (passione, morte, resurrezione); e le istanze più auliche, femminili e strettamente spirituali facenti capo a Nettuno: Maria, Giovanni Battista, la Maddalena, lo Spirito Santo, l’ascensione, la Pentecoste.
Nello specifico, relativamente alla tradizione della natività, possiamo brevemente rilevare:
• Giove come risorse e nutrimento affettivo, valoriale e anche alimentare: II Casa;
• Giove come fede, affidamento, ottimismo, coraggio e slancio … Streben nach … : IX casa;
• Giove come realizzazione suprema, vittoria dopo la croce, dove “Tutto è compiuto” (cfr. Giov. 19,30): XII Casa.


Cardine di questo Giove è sicuramente Maria: Maria mamma (II Casa); Maria modello di fede (IX Casa); Maria donna santa presente nel cenacolo dopo l’ascensione di Gesù (XII Casa; cfr. Att. 1,14).

La stessa teoria astrologica della sana formazione psicologica dell’io personale e transpersonale consiglia vivamente che per avere una buona casa nona, non si possa prescindere da una buona casa seconda, senza contare che la casa seconda è in sestile rispetto alla dodicesima.

Vorrei al proposito proporre alcune riflessioni.
Ad esempio, in casa seconda, la “pappa” con cui ci nutre la mamma, e l’ambiente materiale e affettivo circostante, costituiranno il necessario trampolino di lancio verso le vette della nona e della dodicesima casa; al contempo, i nutrimenti della seconda casa non potranno mai essere così lontani, così differenti, così antitetici (un pochino, sì, è ovvio) rispetto a una dimensione valoriale superiore, dicasi nona casa; se così fosse, saremmo in presenza di una schizzofrenia interna alla madre e al bambino, e probabilmente all’interno della civiltà stessa in cui sono entrambi posti.
Ancora, se in casa seconda troviamo anche il nostro corpo, orbene non esiste esperienza spirituale più corporea – almeno nella sua manifestazione originaria – di quanto propostoci da Gesù, che nasce come un comune bambino (benché concepito differentemente), vive e cresce come tutti, compie gesti estremamente fisici (si pensi alla camminata sulle acque), suda sangue al Getsemani, patisce umanamente il calvario, muore nel dolore, risorge da morto conservando le sue piaghe, ascende al cielo con il corpo, etc.
Parlando di II Casa, in genere - tutti, probabilmente entro certi limiti anche Gesù stesso - tendiamo a formare il nostro senso di identità e sicurezza soprattutto in base a ciò che possediamo o al valore che attribuiamo a noi stessi, dal conto in banca, al nostro ethnos razziale (stile tribù ebraica). Come ricorda H. Sasportas, le posizioni in seconda casa ci dicono se consideriamo Mammona come un dio da adorare, oppure se consideriamo il mondo della forma soltanto come vuoto, maya o illusione (cfr. Mt. 6,24 – Lc. 16,13; di fatto spesso nel Vangelo fa uso di parabole con esempi di tipo monetario/economico); tuttavia, trarre un’identità da qualcosa di esterno o vicino è in ultima analisi precario e soggetto a condizioni. Perfino il corpo, legato al senso iniziale di “io”, dovrà alla fine essere abbandonato e sacrificato, cosa che Gesù conobbe molto bene, ma che per intervento divino riuscì poi a recuperare attraverso la resurrezione, con una decisa rivalorizzazione … casa seconda semper docet ! Parafrasando C.G. Jung, scopriamo nella vita cosa veramente ci sostiene quando tutto il resto su cui ci affidavamo non ci sostiene più: questa sensazione di perdita – specificamente da asse II/VIII – Gesù la sperimenta fin da subito, come vedremo, con la grotta - rifiutato dall’albergo/VIII Casa (cfr. Lc. 2,7) - una mangiatoia bovina lo accoglie, e quale miglior simbolo taurino da seconda Casa ? Ma Gesù sperimenterà in altre occasioni la sensazione di ritrovarsi sull’asse II/VIII; pensiamo a tutti gli avvenimenti che ruotano attorno al suo arresto, all’abbandono di molti discepoli, alla solitudine sulla croce e al suo “Eloì, Eloì, lamà sabactanì ?” (Mc. 15,34). La sua risposta a queste perdite sarà stravolgente, e sempre sotto il segno di Giove, signore della seconda, della nona e della dodicesima, case, queste, che a livello archetipico testimonierebbero il superamento delle difficili dinamiche della casa ottava.

La mangiatoia, dunque, dopo il corpo, costituisce la “primissima seconda casa” di Gesù.
Le ricerche di storia e antropologia hanno dimostrato che in antichità la mangiatoia era una cavità ricavata nella roccia per deporvi cibo, non solo per animali, ma anche per i pastori. Gesù dunque come cibo, cibo per tutti, anzi “pane vivo disceso dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia” (Gv. 6, 22-59). Cibo spirituale, ma cibo anche materiale, perché l’eucaristia “è e avviene sempre”; con Cristo, in Cristo e per Cristo la materia si spiritualizza e lo spirito si materializza: questo è ciò che ci attende in noi stessi, una volta accettata la nostra natura cristica. Cristo dunque come universo stesso, come frutto dello svuotamento – Kenòsis - di Dio, come tutto ciò che ci circonda e che ci appartiene in quanto fratello e figlio della medesima matrice divina, Cristo come divino banchetto, a cui siamo sempre invitati, basta saperlo … Cristo, dunque, come pane di vita che dà nutrimento all’anima di colui che si riconosce in lui e in se stesso nell’aspetto divino. Identificandoci, via via sempre di più con questo aspetto divino della nostra esistenza, avremo compiuto in noi conversioni sempre più consistenti, profonde ed efficaci, con conseguente maggiore risveglio interiore, cosa a cui ci esorta costantemente l’Avvento natalizio.

Riconoscersi dunque nell’anima, nel fuoco principiale interno a noi, che ci accomuna a tutti i fratelli dell’universo, significa ridare significato e valore a tutta la nostra vita, riaccendere un fuoco non fatuo che sia effettivo datore di vita, sentendola nelle nostre vene, e quindi essa vita un tutt’uno con noi e noi con essa.


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BUE E ASINELLO FANNO IL BAMBINO BELLO …


“Non dimenticare di legare il bue e l’asino dove vuole il Padrone” … Proverbio popolare


Nei vangeli il bue e l’asinello non sono menzionati; è stato il Vangelo dello Psuedo-Matteo, praeter VI sec. d.C. a menzionarli e ad aggiungerli, e forse il condizionamento potrebbe risalire a una interpretazione estensiva di Isaia 1,3: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone. Israele invece non comprende, il mio popolo non ha senno.”

La tradizione indo-europea e mediterranea vede nel bue un sinonimo di forza governata e il dominio dei sensi da parte del nostro lato razionale e spirituale; si pensi alla decima fatica di Eracle, e la sacralità conferita al bue da divinità come Zeus, Apollo, Ares e Poseidone. In realtà la simbologia taurina lato sensu è assai complessa e meriterebbe un ben più meticolosa indagine. Non è improbabile che l’accostamento del bue a un contesto come quello della natività sia frutto di sincretismo religioso e di strascichi e rimanenze di religiosità popolare e pagana. Il bue, del resto, è un animale lunare, legato alla fecondità, a una società agricola, animale sempre fedele e amico servitore dell’uomo; un simbolo siffatto ci sta anche bene in un contesto come quello dell’avvento. Se proprio vogliamo tentare di volare alto, l’unico riferimento un po’ aulico a cui ho pensato potrebbe essere il culto di Api. Nella tradizione egizia, già forse risalente alle prime dinastie, Api era (è) il bue la cui pelle è servita a confezionare il sudario di Osiride, con tutte le relative considerazioni di rigenerazione e immortalità. L’origine del nome Api è dubbia; con qualche probabilità viene collegata a Hep, termine che, già nei Testi delle Piramidi, designerebbe la forza procreatrice e la potenza generativa. Quindi, valutata l’indiscutibile influenza del culto di Osiride a tutto il bacino del Mediterraneo a seguito della conquista greco-romana, può il simbolo Api-Bue essere giustificato in un ambito, quale quello del presepe, fortemente legato a valori di nascita (Gesù nella grotta) e successiva rinascita (Gesù il risorto) ?

Se sul simbolo del bue possiamo immaginarci di scrivere qualcosa, più problematico risulta il simbolo dell’asino. Ancora una volta può venirci in soccorso la simbologia egizia. Gli egiziani consideravano l’asino un animale “tifoniano” e l’associavano spesso a Seth, l’assassino di Osiride, a causa del suo colore fulvo e funereo. Poiché Set simboleggia le forze caotiche, il fatto che nel mito egizio Set venga poi comunque ammesso a salire sulla barca solare di Ra, significa che il male è comunque “un bene necessario”, tanto quanto lo fu Giuda l’Iscariota. Dunque, il bue-api sta alla vita e alla resurrezione, come l’asino-seth sta alla morte e alle forze del caos ? Entrambi presenziano alla venuta di colui che potrà veramente incarnarli ? Pura causalità narrativa la rappresentazione di Gesù che entra a Gerusalemme a cavallo di un asino ? Non sembrerebbe, stante quanto chiede Gesù ai discepoli secondo Mt. 21, 1-5.
Gesù quindi vero successore di Osiride e vincitore di Seth ? Come riporta R. Guénon nel suo saggio su Seth fra i simboli della Scienza Sacra: “ci guarderemo bene dal rischiare la minima interpretazione su questo argomento assai oscuro”.

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I MAGHI E I LORO DONI

“Salute a voi, figli dei Misteri Occulti” Gesù rivolto ai Re Magi, secondo la Cronaca di Zuqnin.

Ho voluto scherzosamente intitolare questo paragrafo “I Maghi” e non “I Magi”, vuoi perché, se di magia si tratta, chi la pratica sono i maghi e non i magi; vuoi perché un verbo che facesse riferimento a un sostantivo come “Magi” non riesco a trovarlo nel vocabolario italiano: i Maghi fanno magie; ma i Magi, cosa fanno ? Magiscono ? Probabilmente dietro a questa banale distonia si cela tutta la nostra ragionevole avversità per la parola “magia”, e per tutto ciò che lentamente ha condannato prima una certa cultura cristiana, poi la cultura proto-scientifica moderna e contemporanea ?
Di questi maghi, tre o più che fossero, ne parlano non solo i vangeli apocrifi, e gli pseudo-evangelisti, ma anche il Vangelo di Matteo, al paragrafo 2. Sicuramente meritevoli di lettura sono il Vangelo arabo-siriaco dell’infanzia e il Vangelo armeno. La questione sull’origine di questi maghi è alquanto intricata e fumosa, siamo in Oriente, del resto …
La parola Mago deriva da mag, che significa dono (si pensi però anche all’etimo greco  e al più recente germanico Macht) ed esprime un particolare valore religioso, di cui si parla nelle Gatha dell’Avesta zoroastriano. Mag separa ciò che è spirituale da ciò che è corporeo e si porta in contatto con le energie superiori; sicché mago è colui che partecipa del mag, acquisisce un potere magico per mezzo del quale può accedere a livelli di coscienza più alti, potendo all’occorrenza operare anche sulla materia. I Magi erano una casta sacerdotale iranica che ebbe una profonda influenza e autorità dalla decadenza del potere dei Seleucidi – eredi della parte orientale del mega impero alessandrino – fino alla conquista araba. Pur riallacciandosi allo zoroastrismo - come ricorda Mario Bussagli nel suo testo sui Re Magi - costituivano “un super-clero, come i depositari di un supremo sapere che, in definitiva poteva controllare la corretta esecuzione di un rito e permetteva di avere col sacro un contatto assai diverso da quello concesso a un normale sacerdote … Sicuramente essi ebbero una preparazione astrologica e astronomica di origine caldea, ma ampliata e approfondita … Conoscevano l’interpretazione dei sogni … Potremmo dire che i magi, per predisposizione naturale, per preparazione, per tradizione, erano in grado di entrare in sintonia con le energie e le vibrazioni dell’universo, cogliendo i segreti della materia che essi consideravano a animata”. Insomma, la sapevano lunga.
Precisa sempre Bussagli, che questi non vanno confusi con quei “magi” che in epoca successiva decadranno dalla purezza originaria e si orienteranno verso un magismo di bassa lega, suscitando diffidenza in Occidente, come ad esempio testimonia Plinio il Vecchio, che nella Naturaliis Historia polemizza spesso contro di loro.
Quali altri significati esoterici possiamo dare a questi Re Magi ? A prescindere dalla disputa sul loro esatto numero, la tradizione vuole che fossero tre. Tre di età diversa, di razza diversa; il tre ci rimanda al simbolismo della triade, archetipo di ogni creazione - unitamente al quattro e al loro intricato rapporto, 1, 7, 12 – e archetipo della vita nel suo divenire. Il tre come passato, presente e futuro; il tre come le età di Gesù come, secondo una certa tradizione, apparirebbe ai magi: bambino, adulto e vecchio. Il tre come i principali aspetti della personalità: rettiliano-istintuale, limbico-affettivo, logico-razionale. Il tre come i diversi colori della pelle dei magi, come i colori dell’Opera alchemica, il nero, il bianco e il rosso ? Ricordiamoci anche che i Magi portano i tre famosi doni: l’oro sta a simboleggiare la regalità di Gesù (Cristo Re), l’incenso che come resina ha la funzione sacerdotale di elevazione (Cristo Sommo Sacerdote di Melchisedek) e la mirra, erba rara panacea di tutti i mali (Cristo medicus mundi, guaritore dell’anima, “acqua viva”).
Gli studi compiuti riportano che questi magi erano molto probabilmente ben oltre la semplicità della tradizione popolare, si trattava invece di maghi che erano anche governanti; come ricorda Alfredo Cattabiani nel suo Calendario, in quel tempo il regno dei Persiani dominava per la sua potenza e le sue conquiste su tutti i re che esistevano nei paesi d’Oriente, e quelli che erano i Re Magi erano tre fratelli: il primo, Melkon, regnava sui Persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli Arabi. Ed essi portarono, oltre ai doni, anche dei libri scritti e sigillati dalle mani di Dio … Ipotesi e ancora ipotesi, affascinanti tuttavia, come molte cose che ci provengono dall’Oriente, fra il mito e la storia, fra la realtà e la fantasia, fra le verità di un saggio della Bactriana e le frottole di un mercante di tappeti damasceno …
Come umile cultore di astrologia umanistica, in tutta questa fiaba sui Magi, non posso tuttavia non notare una certa familiarità con l’asse III/IX, e con tutti i significati a essa pertinenti, sospesi fra il “qui e ora” e il “là e allora”, fra concreto e sognato. Direi, anzi, che con i Magi siamo in presenza del sacro inchino archetipale che la Nona Casa porge alla Dodicesima: narra il Vangelo armeno … “e costoro, guidati da una stella per nove mesi, giunsero a destinazione nel momento in cui la vergine diventava madre”; riporta poi il vangelo di Matteo: “ … entrati in casa, videro il Bambino con Maria sua Madre e, prostratisi, lo adorarono.” Dunque, i Magi come saggi (IX Casa) che provengono da lontano (sempre IX casa), ma che accettano di inchinarsi davanti al Bambino Gesù, come vero rappresentante della Casa Dodicesima, sintesi più alta della spiritualità incarnata. L’astrologia, la scienza, la scienza occulta tutta, tutto il sapere esoterico che i Magi incarnano, che tuttavia, e giustamente, si inchina davanti al Bambino figlio dell’Altissimo … Il loro viaggio dura nove mesi, arrivano quando la Vergine ha appena partorito … quindi a dicembre, e se il loro viaggio è iniziato nove mesi prima, è iniziato a marzo, probabilmente sotto il segno dei Pesci, co-significante della XII Casa … sembra che il simbolo quadri … Ma si tratta pur sempre di ipotesi …
Certo è che anche i pastori, gli ignoranti e semplici pastori che abbiamo già incontrato in precedenza, anche loro hanno avuto la possibilità di godere della luce del volto del Bambino con largo anticipo, anche loro furono i primi, e la tradizione li mette sullo stesso piano dei saggi Re Magi che provengono da lontano … come dire … gli ultimi (nella scala sociale, cioè i pastori) staranno insieme ai primi (nella scala sociale, cioè i Re Magi), perché entrambi sono accomunati dalla perseveranza, dall’essere sempre al lavoro, dall’essere presenti e da una fede profonda … i Magi si mettono in viaggio (ancora un simbolo di Nona Casa) perché credono alla luce della stella, in altri vangeli apocrifi si parla di un angelo, lo stesso angelo che ha avvolto nella sua luce i pastori nella santa notte; anche i pastori si mettono in viaggio (“Andiamo dunque fino a Betlemme e vediamo questo avvenimento …”): ignoranti e dotti sono messi sullo stesso piano, perché la loro solidissima fede e cammino li accomuna e li eleva a un piano non più mondano, dove differenze socio-culturali perdono di significato (anche se la tradizione sembra voler privilegiare la semplicità dei pastori, il cui viaggio è molto più breve e molto meno pericoloso di quello dei Re Magi). Ancora una volta, quindi, ritroviamo Giove e l’Asse III/IX.
Tutti noi possiamo essere Magi o Pastori, a seconda delle nostre attitudini e possibilità: non sarà la nostra conoscenza a salvarci, se questa è priva di umiltà e di senso del mistero; e non sarà la nostra semplicità a salvarci, se questa è priva di vera fede.
Con il 6 gennaio, la liturgia dell’Epifania celebra la manifestazione di Dio agli uomini nel Suo Figlio, del Cristo ai Re Magi. Dall’aferesi di Epifania nacque poi col tempo quello di Befana: un maldestro tentativo della tradizione popolare e pagana di cristianizzare la misteriosa signora con la scopa e le calze rotte … ma a questo punto dovremmo aprire un nuovo capitolo, assai lungo e complesso. Con i Re Magi e l’Epifania si chiude il cerchio magico sul Natale. Queste mie poche parole non hanno certo la pretesa di essere complete ed esaustive. Spero tuttavia di essere riuscito nel mio tentativo di offrire un’interpretazione del Santo Natale che andasse oltre quel quotidiano e banale che forse già conosciamo tutti. L’avvento e il Natale hanno in me un non so che di veramente suggestivo. Mi auguro di aver contribuito a rendere l’atmosfera del vostro Natale ancora più viva e autentica, ben sapendo che se voi tutti non mancate di coltivare il vostro presepe interiore vivente, il Natale sarà per voi sempre infinitamente magico …
Allora, buon Natale … !



 

 
 
 
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