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- Astrologia e dintorni

IL SUICIDIO IN ANALISI TRANSAZIONALE
     a cura di Rosamaria Lentini
 
Il suicidio in Analisi Transazionale
Pochi e poco approfonditi sono gli studi sul suicidio; non voglio però soffermarmi sul probabile motivo di questa carenza, quello che intendo fare è raccontare la storia di un uomo che con il suo suicidio finale pone termine al lento e costante morire della sua vita.
Alcuni mesi fa andai in libreria e curiosando, come spesso accade, presi fra le mani un libro, attratta dal titolo e dall’inusitata struttura: un susseguirsi di poche pagine, ognuna scritta a metà, con ampi spazi bianchi, forse per segnare anche graficamente uno stacco tra una “piece” e l’altra.
Il titolo “Post Mortem”. L’autore Albert Caraco.
Vladimir DimitriJevic, suo primo lettore e poi editore, traccia alla fine del libro un breve ma denso profilo dell’autore, una Nota che con pochi cenni mette in luce gli aspetti fondamentali della vita di Caraco e si pone come coerente conclusione di una storia scarna di avvenimenti eppure profonda e sconcertante.
Caraco non sarebbe mai potuto diventare un “paziente” e non lo fu infatti, perchè può esser tale solo colui che ha il permesso, magari strappato, piccolissimo, di avere una sua esistenza autonoma e indipendente, una storia personale. Per Caraco non fu così, egli fu un bambino negato e catturato. Ciò che traspare dalla sua vita, infatti, si muove sotto l’egida del raggiungimento di uno scopo supremo: la perfetta disciplina interiore, il controllo della fantasia, l’umiliazione dell’istinto.
“Le idee, ecco la parola chiave”, è una considerazione di Dimitrijevic ed una caratteristica dominante del libro; i sentimenti che vi compaiono, infatti, pur se intensi quale l’odio e l’amore, sono però così imbrigliati e filtrati dal pensiero, da diventare uno sfondo dal quale emerge quale figura solo la riflessione intorno ad essi. Così anche la vita dell’autore, velata a sua volta dal sentimento, giace su uno sfondo ancor più lontano e sembra svanire, dissolta in un’eco. Pensiero-sentimento-storia, tre elementi ognuno dei quali toglie all’altro in modo crescente, facendo diventare la storia la parte più povera. Ed è quello che dice Caraco di se stesso.
”Ho vissuto io? Non lo so proprio, la mia non è stata altro che una pagina non ancora scritta e, vicino alla cinquantina, tutto quello che me ne resta sono dei fogli imbrattati d’inchiostro. Mia madre fu l’unico avvenimento di quella che non oso chiamare la mia esistenza, la sua vittoria è totale ed io non ho carne se non quanta me ne serve per sentirmi spirito.”
C’è una chiarezza astrale nelle poche pagine di questo libro e non è data tanto dalla struttura quasi geometrica che le guida, quanto piuttosto dalla visione di elementi drammatici eppure rarefatti in una veste razionale; pertanto il dramma, non esplicitato da chi lo vive, paradossalmente viene accolto da chi legge. Il dramma sembra essere più del lettore, che di chi lo vive in prima persona, come accade tutte le volte nelle quali l’individuo, scisso dalla sua emotività, fa una cronaca di se stesso e parla intorno al suo sentimento, piuttosto che del suo sentimento. Le parole allora non sono una delle possibili voci del sentimento, ma una sua copertura, un filtro per la dissertazione.
“Attendo la morte con impazienza ed arrivo ad augurarmi il decesso di mio padre, perchè non oso uccidermi prima che se ne vada. Il suo corpo ancora non sarà freddo quando io non sarò più al mondo.”
E’ un pensiero tratto da “Ma Confession” e riportato nella Nota, l’opera è successiva a “Posto Mortem” ed è l’annuncio di quello che veramente accadde. Poche ore dopo la morte del padre, Caraco si suicidò ingerendo barbiturici e tagliandosi la gola. Probabilmente voleva essere sicuro che la morte risultasse perfetta.
Fu un bambino negato, doveva affrettarsi a crescere: La Nota dà, a conferma di ciò, delle interessanti notizie riguardanti Caraco all’età di sedici anni:
”I suoi genitori sono sicuri che diventerà un Anatole France o un Alberto Semain….Sua madre lo ammira perchè è ammirata. Suo padre se lo cova con gli occhi.”
Crescere per dare prestigio e protezione, crescere per i genitori. Degli anni dell’infanzia parla lo stesso autore, quando in poche parole ne rende la desolante esperienza:

“Chi lo direbbe?I ricordi della mia infanzia non mi sfiorano, e i primi vent’anni della mia infanzia mi lasciano quasi indifferente: è vero che la Signora Madre mi fece allevare da governanti che si avvicendavano nel ruolo, le solite veccie zitelle abbastanza colte e di ottime maniere, grazie alle quali fui in grado di dare ai miei genitori alcune lezioni di saper vivere. Per più di quattordici anni uscii con la Signora Madre soltanto nei giorni di festa, durante le vacanze, e da una notte all’altra la vedevo si e no un paio d’ore.”
Affidato dunque a vecchie zitelle abbastanza colte vede la madre una o due ore al giorno e queste ore, dopo alcune pagine, vengono citate di nuovo riferite alla sua morte.
”La morte l’aspetto come amica, e come aspettava da bambino la Signora Madre.”
Non mi pare avventata l’ipotesi che le visite serali della madre gli suscitassero sensazioni di morte, essendo ognuna di esse una piccole e costante negazione del suo bisogno di ricevere carezze, affetto, intimità, in una posizione di figlio, simbiotica e rassicurante.
Caraco si suicidò dopo aver esaurito il suo compito, un atto consequenziale ad una vita che non aveva avuto possibilità di evoluzione: Da un Bambino negato, deprivato di qualsiasi bisogno, non può sortir fuori un adulto che si riconosca desideri, bisogni obiettivi, per l’appagamento dei quali meriti spendere una vita. La madre era stata il fulcro della sua esistenza; odio e amore i sentimenti che lo avvincevano a lei. Berne in “Ciao!...E poi?” (1972) parla di un copione da Medea che obbliga il genitore che lo possiede a portare i suoi figli anche alla morte, interiore o addirittura fisica.
“La Signora Madre, che sognava sempre, e il cui sonno era tutto un susseguirsi di sogni, quei sogni che non mi raccontava, malgrado le mie insistenze, rivedeva sempre più spesso la propria madre morta di colera quando lei aveva cinque o sei anni; fu la sola confidenza che riuscii a strapparle.”
La madre di Caraco era rimasta orfana in tenera età, aveva avuto molto presumibilmente un tormentato rapporto con gli altri membri della sua famiglia, come esplicitamente racconta l’autore, quando riferisce che teneva i suoi parenti a distanza ed erano, al momento della morte, ormai venticinque anni che li aveva persi completamente di vista. Una bambina famelica di calore dunque, avida di ricevere, una persona che, diventatati adulta, aveva organizzato la sua vita in modo redditizio anche se non risolutorio. La giovinezza berlinese vissuta con gioia e frivolezza, la grande capacità di attirare gli altri per essere corteggiata e amata, il matrimonio con un uomo che si era dedicato a lei e al suo benessere, ne fanno fede.
”Era una donna fino all’estremo, e quando si riaveva da una sincope voleva subito le sue ciprie e i suoi belletti, tanto la sgomentava l’idea di non piacere.”
Sono parole dell’autore e rivelano con quanto zelo la madre si dedicasse all’impresa di attrarre su un piano estetico e non solo su quello, perchè molto curava anche il suo lato intellettuale e speculativo per ottenere sempre e comunque un posto di centralità. Una vita impostata su questo bisogno, un copione il cui tempo è “Sempre”, un’Aracne che, trasformata in ragno, è costretta per l’eternità a tessere la sua tela: Le sue possibilità di funzionamento genitoriale sono minime, quando nasce il figlio non è in grado di stare con lui finché è piccolo e il rapporto dovrebbe essere inclinato al dare, pertanto lo affida a governanti e pacatamente lo vede solo la sera; quando poi inizia a crescere ecco stabilirsi il legame, ora egli è in grado di accogliere le sue richieste di vicinanza e di accadimento. Da qui prende il via la parte manifesta della storia, quella sulla quale si sofferma principalmente l’autore ed ad un vuoto precedente si stabilisce una fittizia presenza materna. Come ho già detto, compare ciò che era già fin dai primi anni di vita dell’autore; si esplicita nella relazione il copione di vita di entrambi; quello materno di tornare a possedere una persona completamente dedita a lei e “sua”; quello di Caraco, in risposta, di essere il Genitore della Bambina della madre.
Un incastro perfetto, da cui ognuna delle due parti trae soddisfazione e tormento. Due vite dolorose.
E’ vero, infatti, che Caraco parla in termini elogiativi del carattere della madre, definendolo uno stupendo sistema di difesa, ma sulla sua vita privata fa ben altro discorso, quando segnala le sue paure, il suo caos interiore, la sua sofferenza, dai quali solo per breve tempo e con un enorme sforzo riesce a sollevarsi.
Questa donna, dal genitore così debole, non è in grado di dare durevolmente a se stessa, così come non è in grado con il proprio figlio. Entrambi possiedono due copioni tragici, derivato da due infanzie malamente vissute, di cui una annienta l’altra per trovare un illusorio appagamento.
Due posizioni esistenziali non OK, certamente peggiore quella di Caraco, che non concede niente al suo bambino, neanche attraverso la manipolazione, come invece fa sua madre, per cui, mentre lei opera nel mondo in modo tale da avere compensazioni, Caraco non ha per sé questo permesso ed è asservito ai bisogni materni, soprattutto, e in minor misura a quelli paterni.
In termini di A.T. egli ha il Bambino Libero escluso, funzionalmente è nel BA e nell’Adulto nei suoi comportamenti sociali, nel Genitore e nell’Adulto nella relazione con la madre.
Riporto un passo tratto dagli “Stati dell’IO” di C. Moiso e M. Novellino:
“ Può darsi anche il caso contrario in cui è la madre ad essere estremamente bisognosa, divorante, dipendente dal figlio per le sue necessità affettive. In questo caso il figlio sviluppa precocemente il Genitore e il suo adulto e li mette a disposizione nella relazione simbiotica, mette la madre mette a disposizione il Bambino, per cui è il figlio che si deve prendere la cura di soddisfare il bisogno affettivo della madre.”
Si stabilisce, quindi, una simbiosi dalla difficile evoluzione, come accade invece in quella naturale, per lo scioglimento della quale c’è reciproca partecipazione; nel caso i questione è uno solo dei contraenti che può operare la rottura con un atto volontario e traumatico.
Per Caraco non ci fu risoluzione né naturale, né traumatica: il suo copione era troppo rigido perchè riuscisse a modificarlo. Ingiunzioni forti e pesanti ne sono i pilastri, ad esse Caraco consapevolmente aderisce con irrevocabile decisione di vita. Tutto il libro è il racconto di una vita fatta di pensiero più che di storia. I sentimenti sono banditi e perfino davanti alla morte egli si vieta il dolore e il pianto che ne è la naturale espressione.
“Mentre il Signor Padre versa qualche lacrima, i miei occhi restano asciutti come sempre, è verissimo che non piango mai, non si dovrebbe tacciarmi d’indifferenza, le mie idee vietano il pathos, il mio stile mi proibisce anche di sfiorarlo. “
Idee e stile: mi pare di poter realisticamente affermare che queste parole siano da attribuirsi ad una decisione di copione debitamente rafforzata da messaggi di controcopione.
“L’insieme di messaggi che sono riposti nello stato dell’Io Genitore, insieme alle decisioni da esso derivate, è chiamato il nostro controcopione….. il nostro controcopione è il nostro carattere.” ( M. Klein)

“Post mortem” è, come ho detto, la storia di due copioni perfettamente incastrati come le tessere di un mosaico e ogni pagina , data anche la sua particolare struttura, è un minicopione che esprime e ribadisce la decisione del bambino adattato dei due protagonisti e la simbiosi nella quale vivono. Sempre e Mai i loro tempi, complementari e quindi nella relazione non passibili di alcuna trasformazione se non cosciente e traumatica: lei è Sempre bambina e lui, nato genitore, non può esserlo Mai.
Caraco ha della sua storia una consapevolezza buona ma infruttuosa, perchè non gli serve ad operare qualche cambiamento né almeno a desiderarlo. La conoscenza, in questo caso, privata della creatività necessaria alla modifica, aggrava la sofferenza, evidenziando l’inesorabilità di un'esistenza che sembra essere governata dal destino.
Ecco perchè la morte diventa una scelta di vita e una cura all’esistenza.
“La mia vita è come un’eterna notte, quando una buona volta morirò potrò dire con Achille: Oh tu, veglia della mia esistenza, sei finita!” (Kierkegaard)
Per Caraco esistenza indipendente, sensazioni, sentimenti, intimità con se stesso e con gli altri, appartenenza, sessualità, età reale, tutto è negato e in un modo così drastico che le difficoltà inerenti al suo essere ebreo possono definirsi secondarie, casomai solo un contributo a quello che già doveva essere-
“Il mio odio per questo mondo è ciò che trovo in me più degno di stima, io odio il mondo sia come malato, sia come ebreo, due titoli della migliore qualità, amo la morte e faccio bene, la maggior parte dei malati non l’amano abbastanza e la loro smania di vivere li rende disprezzabili, gli ebrei dal canto loto non l’amano affatto e il loro attaccamento all’esistenza è la ragione del disgusto che ispirano. A queste due razze d’uomini mancano il distacco, il riserbo e il pudore, né i malati, né gli ebrei avranno mai stile, sono dei poveri nel senso peggiore della parola, che all’occorrenza si armano della loro miseria.”
Così come la salvezza degli ebrei è passata storicamente attraverso la difesa della propria razza, per cui un ebreo prima di ogni altra cosa è un ebreo, parimenti la salvezza di Caraco sarebbe arrivata se avesse potuto difendere la sopravvivenza e del proprio bambino.
Ma non fu così, il ragno aveva tessuto bene la sua tela, Caraco vi era così compreso da poter subire addirittura la sfida ad uscirne.
“E’ per me sola che ti ho allevato, non credevo di essere una madre divoratrice e ti ho mutilato, povero figlio mio! Dovresti diffidare di più di tua madre, io non ti voglio male ma non ti faccio tutto il bene che vorrei ed è a me sola che penso mio malgrado. Sii u po’ più brutale, un po’ d’ingratitudine mi metterebbe tranquilla, in fondo siamo tutti degli spaventosi egoisti.”
Sono parole che solidificano lo status anche se apparentemente sembrano incitare alla lotta, seguirle o no è indifferente in quanto ridefiniscono il copione. E’ paradossale incitare qualcuno alla ribellione contro se stessi, perchè il farlo è un ubbidire comunque. E’ creare una posizione di scacco matto.
“Perchè ogni donna porta in sé l’immagine di quell’Io profondo al quale noi non accediamo se non rinunciando al nostro.“
Sono parole che si commentano da sole e sono una delle tante considerazioni, sparse a piene mai nel testo, che mostrano l’alienazione del bambino Caraco e il prezzo pagato per avere un rapporto con la madre: odio verso se stesso, verso la razza, verso la madre, verso l mondo!
Forse questo è un caso in cui si può parlare addirittura di de-energizzazione più che di esclusione. Jacqui Lee Schiff propone molto chiaramente questa differenza:
“l’esclusione implica il ritiro della carica slegata, la de-energizzazione implica il ritiro sia della carica slegata, sia di quella legata. E’ possibile de-energizzare il Bambino solo decidendo di morire, come fanno, ad esempio, quei monaci buddisti che mandano l’avviso della loro morte.”
Odio e amore, disperazione, tragedia, pervadono questo libretto dalla dura poesia; ogni passo riporta a ciò che non è stato: un uomo che non è stato un bambino, che ha avuto una vita che non ha formato storia, che ha avuto una madre che non lo è stata, e che, per raccontare ciò, ha scritto un libro che si può leggere ma non riassumere.
“La Signora Madre è morta, l’avevo dimenticata da qualche tempo, la sua fine me la restituisce alla memoria, magari solo per poche ore, meditiamoci sopra prima che cada nel dimenticatoio. Mi chiedo se lo voglio bene e sono costretto a risponder: No, le rimprovero di avermi castrato, poca cosa davvero, ma insomma… mi ha trasmesso la sua complessione ed è più grave perchè soffriva d’alcalosi e d’allergie, io ne soffro ancora più di lei e i miei malanni non si contano, e poi….Mi ha messo al mondo e professo l’odio per il mondo. "

 

 
 
 
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