“L’obiettività scientifica è il manto con cui
l’Occidente vela a se stesso il proprio cuore.”
Carl Gustav Jung
Gli aspetti simbolico-mitologici legati alla figura di Venere sono una parte importante dei “mille volti” astrologici di questo pianeta, e ciò è vero con particolare riferimento alla bellezza, al piacere, all’erotismo, alla seduzione, alla sessualità, alla sensualità, i quali (non appaia blasfemo) sono tutti fattori intimamente legati alla sacralità dell’Amore inteso come ricerca del divino.
Inizierò, per questo motivo, proprio dalla “Dea dell’Amore e del Desiderio” che Esiodo narra essere emersa meravigliosamente nuda dalla schiuma del mare (Teogonia, 188-206):
“E come (Crono) ebbe tagliati i genitali con l’adamante
li gettò dalla terra nel mare molto agitato,
e furono portati al largo, per molto tempo; attorno bianca
la spuma dall’immortale membro sortì, e da essa una figlia
nacque, e dapprima a Citera divina
giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti;
lì approdò, la Dea veneranda e bella, e attorno l’erba
sotto gli agili piedi nasceva; lei Afrodite,
cioè dea Afrogenea e Citerea dalle belle chiome,
chiamano Dei e uomini, perché dalla spuma
nacque; e anche Citerea, perché prese terra a Citera;
o Ciprogenea ché nacque in Cipro molto battuta dai flutti;
oppure Filommedea perché nacque dai genitali.
Lei Eros accompagna e Desiderio bello la segue
da quando, appena nata, andò verso la stirpe degli Dei.
Fin dal principio tale onore lei ebbe e sortì,
come destino fra gli uomini e gli Dei immortali,
ciance di fanciulle e sorrisi e inganni
e il dolce piacere e affetto e blandizie.”
Analizzando questa antica fonte mitologica si possono scoprire molti particolari: innanzitutto le onde del mare sono fecondate dalla spuma uscita dai genitali di Urano, il cielo. Per quanto cruento, l’atto compiuto da Crono si risolve in un atto di unione delle energie celesti con quelle vitali delle onde del mare: si tratta di una vera e propria ierogamia, e, in quanto tale, di un simbolico atto d’amore.
Il mare è la culla della nascita di Venere e della vita stessa.
Un tempo molti credevano, e tuttora molti ritengono, che la vita sia nata nel mare, o meglio in un brodo primordiale costituito da una miscela di ammoniaca, metano, idrogeno e acqua, la quale, secondo i risultati del celebre esperimento di Stanley Miller del 1953, produsse un primo coacervo organico proprio grazie alle uraniane scariche elettriche che infestavano il cielo circa quattro miliardi di anni fa. Recentemente questa ipotesi abiotica della comparsa dei primi amminoacidi ha mostrato qualche incongruenza, mentre ha sempre più successo la più moderna ipotesi esobiologica delle comete e dei meteoriti portatori di molecole organiche extraterrestri, la quale, dal punto di vista simbolico, comunque rappresenta un celeste e fulmineo, quindi uraniano (e in parte gioviano), veicolo di discesa fecondante.
Nella forse bizzarra ottica bio-mitologica Venere è quindi il simbolo della vita stessa, che nasce da una femminile, mobile, sinuosa, accogliente onda di Acqua primordiale (calda e umida, direbbero gli alchimisti) e da una fecondante maschile, fredda e secca, scarica elettrica proveniente dal Cielo. In questo caso, se Venere rappresenta la vita, è a tutti gli effetti una espressione della più antica Dea Madre pre-olimpica.
Come questa antica divinità, il primo aspetto della vita che Venere mette in evidenza è la propria sessualità come mezzo principe di riproduzione, e ci parla inoltre della bellezza e della seduzione, come forze attrattive complementari a quella universale che induce gli opposti prima a contrapporsi e quindi ad unirsi. Ovviamente in questo caso la Dea si avvale della sua controparte maschile, simboleggiata principalmente da Ares-Marte.
Nella narrazione della nascita di Afrodite-Venere di Esiodo è presente anche il mito della castrazione sacra. Si tratta in realtà di una tradizione di origine pre-ellenica, come dimostrano il mito di Attis, amante di Cibele, antica Dea madre della Frigia, e quello dello smembramento del corpo di Osiride, fratello e sposo di Iside, la Dea Madre egizia. L’antichità e il contenuto di questi racconti sembrano alludere alla nascita del cosmo e all’origine del tempo stesso. Non è difficile, infatti, vedere nel primo divino atto sessuale, la narrazione mitica della nascita della vita del pianeta prima ancora che dei suoi abitanti.
Un altro aspetto della nascita di Venere è la presenza simbolica di alcuni suoi emblemi, quali l’accogliente conchiglia e il verde rigoglioso che nasce sotto i suoi piedi. Successivamente si immaginò la Dea accompagnata da rose e fiori, tortore e passeri, noti in area mediterranea per la loro lussuria, da anemoni e ricci di mare, da seppie. I cosiddetti “frutti di mare” sono ancora oggi considerati un cibo “afrodisiaco”, e non è certamente un caso se certe culture li considerano alimenti immondi, se non addirittura vietati da specifiche norme religiose.
Anche le colombe sono suoi animali sacri. Per inciso si ricordi che proprio Zeus-Giove, secondo una diversa e molto più tarda tradizione mitologica, si vantò di aver avuto Afrodite da Dione, figlia di Oceano e Teti, Dea del mare, ma anche Signora della Quercia sulla quale le colombe sacre facevano il nido presso l’oracolo di Dodona (di cui lo stesso Zeus si era impadronito usurpando il dominio dell’antica Dea Madre). Pertanto, se Urano è in qualche modo il pre-olimpico padre di Afrodite, Zeus ne è il padre olimpico ed effettivo facente funzioni nei miti successivi.
Bellezza, piacere, sensualità dovrebbero dunque essere attributi di un essere angelico e divino, ma non è sempre così. Vediamo ora l’aspetto, per così dire, demoniaco.
In quanto Signora della Vita, Venere-Afrodite era anche Signora della Morte, anche se ciò sembra contrastare con la sua compiacente bellezza.
Dalle gocce di sangue cadute durante l’evirazione di Urano nacquero le Erinni, minaccioso e cupo aspetto della triplice Dea, e così le tre Melìe, ninfe del mistico frassino. Ad Atene Afrodite era considerata sorella delle Erinni, e, tra i suoi numerosi appellativi, si usavano anche Melenide (la Nera), Scotia (l’Oscura), Androfone (Omicida), Epitimbria (delle tombe): nomi terribili che la associano agli antichi culti ctoni, alle ombre, all’inconscio, forse anche ai tempi remoti in cui gli sposi delle sue incarnazioni regnavano solo per un breve periodo prima di cedere il trono e di essere ritualmente immolati durante le feste del calendario sacro o in altre occasioni particolari.
I sovrani fenici di Cipro erano chiamati Adone (Signore), in quanto sposi di Astarte (versione asiatica di Venere), che sposavano simbolicamente prima di salire al trono unendosi in effigie a una statua (vedasi il mito di Pigmalione), ovvero carnalmente alle prostitute sacre di Pafo (J.G. Frazer, Il ramo d’oro):
“Dal momento che l’usanza della prostituzione sacra a Pafo si dice sia stata istituita dal re Cinira e osservata dalle sue figlie, possiamo supporre che i sovrani di Pafo facessero la parte del divino sposo in un rito molto meno innocente dello pseudo-matrimonio con una statua; e che, anzi, in occasione di determinate feste, ciascuno di loro abbia dovuto accoppiarsi con una o più delle sacre meretrici del tempio, che diventava un’Astarte per il suo Adone. Se così era, l’accusa dei padri cristiani secondo cui la Afrodite venerata da Cinira non sarebbe stata altro che una volgare prostituta, è più veritiera di quanto sia stato comunemente creduto.”
I miti non smentiscono questo aspetto della Dea, chiamata anche Porne, Colei che si prostituisce. Di Afrodite si narra che avesse una magica cintura che faceva innamorare chiunque, ma spesso fu la sua sola seducente bellezza a farla amare da Dei e mortali nelle sue numerose promiscue avventure con Efesto, Ares, Hermes, Poseidone, Anchise, Adone, l’argonauta Bute, e, simbolicamente, con Pigmalione.
In ogni caso, dopo questi accoppiamenti, come facevano le sue sacerdotesse ad ogni primavera, Afrodite poteva recuperare la sua purezza bagnandosi nelle acque di Pafo a Rodi.
Una critica moralistica a questo comportamento appare già in Omero, che non vi vede già più il candore delle origini (Odissea, VIII, 267-270):
“...gli amori d’Ares e d’Afrodite bella corona, quando la prima volta s’unirono nella casa d’Efesto furtivi, e molti doni le diede e il letto disonorò del sire Efesto...”
E sempre Omero racconta di come Efesto indignato espose la Dea al ludibrio dei suoi pari e si rivolse a Zeus con sarcasmo:
“Certo, hai una bella figlia, ma incontinente!”
(Odissea, VIII, 320).
Lo stesso Platone sente il dovere di distinguere due diversi aspetti di Afrodite: quello angelico e quello demoniaco. E così nel Convito spiega la duplice natura di Eros (Dio
dell'Amore), più portato verso gli amori puri e spirituali oppure verso gli amori volgari, carnali e sensuali, a seconda che fosse figlio di Afrodite Urania o di Afrodite Pandemon. La prima sarebbe la figlia del cielo e della spuma del mare secondo il mito di Esiodo, e la seconda la figlia di Zeus e di Dione, secondo il mito più tardo.
Questa distinzione fra “amore puro” e “amore carnale” non appare nelle più antiche rappresentazioni di Venere, che è, ingenuamente e candidamente, espressione di entrambi, e forse di qualcosa di superiore ad entrambi.
Penso che tale distinzione derivi in origine da una ancestrale perdita dell’innocenza edenica in un arcaico momento drammatico spesso simboleggiato da un frutto e dalla scelta che ne consegue. Come l’eroe solare Eracle al bivio dovette scegliere tra Vizio e Virtù, così il bel Paride di Troia scelse a chi donare il pomo della discordia, cedendo infine alle lusinghe di Venere, e così Eva colse il frutto proibito scegliendo di cedere agli inviti del serpente.
“Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.
(Genesi, II, 25).
In un momento mitico della preistoria l’umanità perse per sempre la sua innocenza come una fanciulla perde la verginità. Simbolicamente fu come se il candore della rosa bianca, come narra il mito di Adone, fosse macchiato per sempre dal sangue rosso della Dea ferita dalle sue spine.
Ugualmente in passato si distinse il pianeta Venere, che fu chiamata Lucifero, stella del mattino brillante prima dell’alba, oppure Vespero, la stella della rossastra sera.
La morale delle religioni patriarcali coeve e successive ha ampiamente sfruttato questa strumentale distinzione scavando un solco profondo di crescente sospetto e avversione verso la figura mitica e archetipica di Afrodite-Venere, in origine solo una sublime incarnazione del principio femminile, ma soprattutto snaturando il primitivo naturale concetto di “amore”. Quell’amore primordiale e eterno che può liberare l’uomo avvicinandolo al principio divino.
C. F. Hebbel scrisse nei suoi Diari:
“Solo attraverso l'Amore l'uomo può essere liberato da se stesso.”
Eppure gli aspetti considerati meno nobili dell’amore, e conseguentemente di Afrodite, costituirono gli esempi comportamentali più negativi secondo i paradigmi dominanti dall’alto Medio Evo fino ai giorni nostri, al punto che talvolta si giunse a distruggere le antiche statue pagane di quella che era chiamata “Venere Dimonia”: una divinità ridotta al rango di una volgare adescatrice, una corruttrice di giovani, un demone perverso e lussurioso, una “malafemmina”, come avrebbe detto Totò.
Del resto, Afrodite non ha mai amato chi disprezzava il sesso o intendeva mantenersi vergine, magari pretendendo così di migliorare le proprie prestazioni agonistiche o la propria rispettabilità (si vedano i miti di Atalanta, delle cavalle di Glauco, delle Sirene, ecc.)
Un tempo si attraversava la Porta di Ishtar (Astarte), ornata di smalti azzurri, per entrare nella splendida città ricca di giardini che aveva l’antico nome di Bab-Ilu (la Porta di Dio): Babilonia.
Una leggenda attribuisce l’edificazione dei Giardini pensili di Babilonia alla mitica Semiramide, regina degli Assiri. Di lei si narrava che, come la Dea venerata nella città dei piaceri, fosse oltremodo lussuriosa, e che ogni giorno visitasse i Giardini pensili, in cerca di rose sacre a Venere e di refrigerio. Le leggende medievali su Semiramide la associarono al culto della Afrodite mesopotamica e la biasimarono per gli stessi motivi, sebbene Erodoto e Beroso la descrivono come una valorosa combattente e una saggia governante.
Paolo Orosio, discepolo di Sant’Agostino, affermava che fu incestuosa e libidinosa oltre ogni limite, attribuendole leggi che liberalizzavano i costumi sessuali rendendo lecito ogni eccesso. Queste dicerie influenzarono anche i Fedeli d’Amore, anche se soltanto nella loro interpretazione essoterica, come Boccaccio, che ne parlò come di una donna assai licenziosa e crudele (De Mulieribus Claris), e Dante Alighieri, che pose Semiramide nel girone dei lussuriosi nell’Inferno (V, 55-60):
“A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito a sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ‘l soldan corregge”.
La stessa Babilonia, città sacra alla Dea e famosa nell’antichità come luogo piacevole, non a caso diventò per tutto il Medio Evo l’esempio ideale del massimo luogo di corruzione e di costumi immorali. Le origini di tale credenza vanno cercati nell’Antico Testamento (particolarmente in Isaia e Geremia) e nell’Apocalisse di Giovanni, che identificò questa città con la “Grande Meretrice” e con lo stesso concetto di peccato:
“Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra” (XVII).
Il moralismo originatosi nelle più antiche società patriarcali e radicalizzato nell’Europa medievale ossessionata dal concetto di “peccato” era in aperto conflitto con la semplice idea liberale della civiltà pagana mesopotamica, ma soprattutto con il retaggio culturale matriarcale all’origine di tale credenza.
Da ciò deriva il diffuso giudizio negativo su Semiramide, che, per il solo fatto di essere stata donna dominante e regina babilonese, incarnava bene dal punto di vista simbolico molti pregi e difetti che l’astrologia attribuisce al pianeta Venere, soprattutto nella sfera sessuale. Come Semiramide e Babilonia sono stati il simbolo del “piacere” venusiano, altrettanto lo furono i mitici Giardini pensili, idealizzati nell’immaginario come un luogo paradisiaco finalizzato alla pura bellezza ed alla gioia dei sensi. Non è un caso che le parole “giardino” e “paradiso” avessero nelle antiche civiltà lo stesso significato.
Come abbiamo visto, una serie infinita di fraintendimenti del messaggio archetipico di Venere ha portato quindi a una sua visione particolarmente negativa, una censura e una vera e propria demonizzazione, che trovò nel Medio Evo la massima distanza da quella originale, che non aveva alcun timore di cercare di raggiungere il divino tramite il sensibile, che si permetteva di unire ciò che oggi chiameremmo “sacro” e “profano”, che osava utilizzare in senso tantrico anche la forza dell’attrazione sessuale a fini mistici realmente ed etimologicamente religiosi, al di là di ogni parziale punto di vista moralistico.
Per meglio comprendere questa visione arcaica e davvero completa di Venere, si cerchi la sublime commistione di pura sacralità e di sensibile carnalità, l’intreccio di aspetti divini e tenebrosi, solari e notturni, angelici e demoniaci, nei versi degli Inni Orfici (55):
“Urania, celebrata in molti inni, Afrodite che ami il sorriso,
nata dal mare, dea genitrice, che ami vegliare tutta la notte, augusta,
che unisci di notte, tessitrice di inganni, madre di Necessità:
(....)
che ti rallegri delle feste, madre degli Amori che prepari i matrimoni,
Persuasione che ami il letto, nascosta, datrice di grazia,
visibile, invisibile, dalle amabili trecce, di padre illustre,
nuziale, commensale, degli Dei tieni lo scettro, lupa,
datrice di prole, ami gli uomini, desideratissima, datrice di vita,
che hai aggiogato i mortali con costrizioni senza briglie
e le numerose specie di animali con incantesimi che suscitano folle amore:
(....)
a Cipro tua nutrice, o sovrana, dove sia le belle
fanciulle vergini sia le spose per tutto l’anno
inneggiano a te, beata, e al santo Adonis immortale.
Vieni, Dea beata, con aspetto molto amabile:
perché con animo pio ti invoco con sante parole.”
Afrodite-Venere, come incarnazione della sessualità e della sensualità femminile, è in contatto con la nostra parte notturna, la nostra ombra (così come la chiamava Jung), il nostro inconscio: “quella personalità celata, rimossa, per lo più inferiore e colpevole”, e “tutto ciò che il soggetto rifiuta di riconoscere e tuttavia continuamente gli si impone” (Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, 1998).
Gli antichi appellativi di “Nera”, “Oscura”, “Omicida”, “delle tombe” ricordano come la Dea sia da sempre legata anche ai culti ctoni, mentre parallelamente Afrodite è detta essere Anasyrma, colei che conosce l’arte di sollevarsi la veste, Peitho, colei che persuade, Philommeideis, colei che ama i sorrisi, e i genitali.
In ogni caso, i paradigmi dominanti delle religioni più fortemente patriarcali hanno cercato di rimuovere e hanno condannato senza riserve sia l’aspetto seduttivo ed erotico della divinità, sia quello più tenebroso e mortale (stiamo parlando del famoso binomio Eros e Thanatos). La stessa censura ha fatto il razionalismo positivista moderno, talvolta con gravi danni per la psiche individuale e per la società.
La rimozione di questi aspetti simbolici di Venere, considerati moralmente riprovevoli, può essere assai pericolosa, come ammonisce Adolf Guggenbühl-Craig (Deserti dell’anima, 2001):
“Uno psicopatico non si riconosce dalla forte Ombra archetipica; ma un’Ombra priva di Eros, come nel caso degli psicopatici, può provocare dei seri problemi.”
La storica negazione degli originali valori di Venere, così ben descritti dagli Inni Orfici, operando una scissione tra cosiddetto “sacro” e cosiddetto “profano”, ha prodotto alcuni fraintendimenti psicologici e antropologici prima che sociologici.
Eppure è l’amore che rende il mondo piacevole, bello, gentile, delizioso, amabile. È l’amore che suscita meraviglia e straniamento, che spiazza, che fa uscire dal guscio chiuso del proprio ego e della propria mente, e che quindi opera taumaturgicamente, nel vero etimologico senso del termine.
Gabriele La Porta ha affermato che
“Afrodite è il divino che estrinseca in una sessualità dove spesso la parte razionale, il nostro ego, è travolto o quanto meno escluso.”
Nel cuore non c’è spazio per il ragionamento, e quindi neanche per l’egoismo. Così neanche la più spirituale gnosi potrà ignorare il motto di Paracelso: “Ciò che vive secondo la ragione, vive contro lo spirito”.
L’amore, in quanto capacità di scegliere e di discriminare al di là delle passioni e degli egoismi umani, può aprire la strada della liberazione dai vincoli. E sempre l’amore, inteso come passione e attaccamento, può incatenare in ulteriori legami e asservimenti. Le scelte umane, più o meno egoistiche, determinano dunque se l’amore porterà unione o separazione.
È certo che, se esso spinge i princìpi universali e gli esseri a armonizzarsi ed unirsi, ci sarà un atto creativo e divino, dal momento che
“il potere dell'Amore è di creare unione”
(Ferro Ledvinka, Ascolta il cuore!).
La “scelta” e il “piacere” impliciti nel concetto di amore sono ben presenti nella figura del VI Tarocco degli Arcani Maggiori, allegoria non a caso ambigua nella sua interpretazione.
In certe versioni tradizionali della stessa carta appare anche Eros (che in origine rappresentava la “passione sensuale”), nella forma di putto alato con arco e freccia, il che è una visione tarda, sicuramente post-omerica, e ben lontana dai valori simbolici originali di Afrodite.
Ma il Tarocco più vicino all’archetipo di Venere è certamente il XVII Arcano, detto la Stella, ed ispirato alla luce più brillante in cielo dopo i luminari. La Stella per antonomasia è sicuramente Venere, come dimostra il gruppo di sette stelle più piccole che l’accompagnano, evidente richiamo alle Pleiadi e quindi alla costellazione del Toro.
Dalla Stella scende l’energia dal cielo e dalla Terra essa può, e deve, risalire, in un connubio alchemico che ricorda sia l’astratto che il concreto sul filo di rasoio del solve et coagula, come evidentemente spiegano i due simboli di Venere e della Terra.
Si rifletta sull’etimologia della parola “desiderio”, un sentimento divino, che scende dalle stelle a risvegliare gli animi preparandoli all’ascesi.
Perché il divino può essere raggiunto in molti modi, ma sempre superando se stessi: Afrodite-Venere mostrava un cammino naturale, probabilmente primitivo, in quanto non intellettuale, ma certamente mistico quanto altri.
Nell’antico mondo pagano la Dea era “venerata” (si rifletta anche sull’origine di questa parola) per quell’aspetto del divino finalmente reso non solo ammirabile, ma perfino sensibile, oserei dire gustabile: il primo modo che ebbe l’umanità di avvicinarsi a Dio tramite i propri sensi, l’unico che ha mai avuto per essere autenticamente creativa e per perpetuare la vita, per diventare eterna con essa.
L’alchimista e Rosacroce Michail Maier ne ebbe una meravigliosa intuizione scrivendo nel 1618:
“Giungere allo spirito attraverso i sensi”.
BIBLIOGRAFIA:
Dante Alighieri, Divina Commedia
Esiodo, Teogonia
Omero, Odissea
Franco Cardini, Il signore della paura, 2007
Inni Orfici
James George Frazer, Il ramo d’oro, 1890
Robert Graves, I miti greci, 1963
Gabriele La Porta, Dizionario dell’inconscio e della magia, 2008
Ferro Ledvinka, Ascolta il cuore!, 1996
Michael Maier, Atalanta fugiens, 1618
Giovanni Pelosini, I Tarocchi Aurei, 1997
Oswald Wirth, Il Simbolismo astrologico, 1991